Il cantiere di Juan Carlos Onetti: la certezza della scrittura

Dopo aver parlato de La vita breve, il ritorno all’universo onettiano di Santa María oltre che pianificato era anche necessario e voluto. Abbiamo scoperto uno scrittore, Juan Carlos Onetti, che ha una voce potente tanto da essere spesso accostato a Faulkner. Con Il cantiere (El astillero), pubblicato per la prima volta nel 1961 e arrivato in Italia soltanto nel 2013, torniamo nella piccola città fluviale e agli abitanti di questo microcosmo. Il volume, nella nuova veste grafica, fa parte della neonata collana di Sur dedicata al grande scrittore e lo trovate nella traduzione di Ilide Carmignani e con una postfazione di Edoardo Albinati.

Dopo cinque anni di esilio, le cui cause rimangono oscure – almeno in questo libro – Larsen torna a Santa María spinto dalla voglia di rivalsa e di vendetta. Parte di un suo non meglio precisato piano è il corteggiamento di Angelíca Inés, figlia del proprietario del cantiere sul fiume, Jeremías Petrus. Il nostro eroe si fa assumere dall’anziano imprenditore come Direttore Generale dell’azienda: scoprirà ben presto che il cantiere è in fallimento perpetuo e che lui non è altri che il guardiano di un regno in macerie.

Larsen è un personaggio tragicomico. Sempre pronto ad alterare la postura, i suoi passi, la sua presenza alle circostanze, per rispondere alle ipotetiche aspettative delle persone, ridimensionando lo spazio che occupa. Perso nelle sue illusioni, intrappolato nelle sue stesse bugie, si scherma debolmente col soprabito che sa di lozioni per capelli e alcol e con l’immancabile cappello, sempre adagiato sulla testa.

Lo spirito decadente di Larsen ben si accorda con Puerto Astillero. Il cantiere cosparso di rottami, carpette macchiate dal tempo, attrezzi e bulloni ormai arrugginiti e inservibili, animato soltanto da Kunz e Gàlvez, non fa altro che accelerare la degradazione dell’anima del Raccattacadaveri, iniziata nel momento stesso in cui ha deciso di rimettere piede a Santa María. L’illusione, o il grande autoinganno, è l’unico modo per rendere presentabile a se stesso uno scenario di questo tipo, uno scenario da fine del mondo.

Il romanzo è permeato da un’atmosfera di ineluttabilità e disperazione, quasi opprimente. A leggere della miseria degli abitanti di Puerto Astillero, domina la sensazione di impotenza: Larsen, Kunz, Gàlvez, perfino Petrus, tutti sanno cosa sta per succedere e che l’epilogo può essere soltanto uno, ma non fanno nulla per sfuggirgli. Accettano il loro destino, non lo combattono, anzi, fanno di tutto perché giunga il più in fretta possibile a compimento.

Fu un caso, è chiaro, perché Larsen non poteva saperlo. Di tutti gli abitanti di Santa María, solo Vázquez, il giornalaio, potrebbe essere preso in considerazione come eventuale corrispondente di Larsen durante i suoi cinque anni di esilio; e non è provato che Vázquez sappia scrivere e non è credibile che il cantiere navale in rovina, la grandezza e la decadenza di Jeremías Petrus, la villona con le statue di marmo e la ragazza idiota siano i temi di un ipotetico epistolario di Froilán Vázquez. Oppure non fu il caso, ma il destino. Il fiuto e l’intuito di Larsen, posti al servizio del suo destino, lo riportarono a Santa María per concedergli l’ingenua rivincita di imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata città. E poi lo guidarono fino alla casa con i marmi, le infiltrazioni d’acqua e l’erba alta, fino ai grovigli di cavi elettrici del cantiere.

In questo caos di macerie e disperazione, anche il tempo, i suoi contorni, sono più sfumati. Non ha importanza se un certo evento è successo prima di un altro, quello che conta è l’inevitabile risultato. Onetti anticipa avvenimenti, poi ci ritorna su e li arricchisce di particolari usando un linguaggio evocativo e ricco di immagini e aggettivi. Presente e futuro si mescolano mentre il passato rimane qualcosa di lontano che si riesce a scorgere soltanto in lontananza, è cosa confusa.

E non lo è solo il passato. Parafrasando le parole di Edoardo Albinati, il senso di confusione rimane anche in chi legge a lettura ultimata. Che cosa ci sta dicendo Onetti? Che cosa rappresenta davvero il cantiere, questo gigantesco mostro di pareti scrostate e cavi elettrici che sembra consumare l’anima di chi calca i suoi spazi? La certezza è nella qualità della scrittura: Onetti, dopo La vita breve, si riconferma un grande autore, capace di dosare le parole nelle quantità e nel modo che più ritiene opportuno. Non si può dire che coccoli il lettore, ma il bello è proprio questo, nello sforzo interpretativo e di immaginazione attiva che si deve fare per arrivare a Puerto Astillero e uscirne vivi.

-Davide

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