Utopia Editore| Economia dell’imperduto di Anne Carson

Cos’hanno in comune il Canada e i classici greci? Nulla, verrebbe da rispondere. In realtà, però, un punto di collegamento c’è. È proprio in Canada che una giovane Anne Carson incontra per la prima volta i poemi di Saffo e se ne innamora perdutamente. Da questo fortunata circostanza nasce una passione pulsante che la poetessa e traduttrice canadese coltiva pazientemente nel tempo. Così scrive saggi, poesie e traduce con dedizione assoluta sin dagli anni Ottanta. Il mondo della Carson è così vasto che descriverlo in un articolo è impresa impossibile ma concentriamoci su un anno specifico, il 1999, quando esce per la prima volta Economy of the Unlost. È un’opera importante, che possiamo dire con gioia di avere finalmente disponibile in italiano col titolo Economia dell’imperduto (Utopia, 2020).

Quello che scrive Anne Carson è un breve e complesso saggio sul linguaggio poetico. Oggetto della sua ricerca sono il rapporto tra economia della poesia ed economia monetaria, la natura di questa particolare forma letteraria e l’animo dei poeti che si ostinano a esercitarla. Per fare questo si affida a due uomini del passato, uno di quello remoto e l’altro più prossimo, e mette a confronto due mondi diversi, due modi di fare poesia e due solitudini. In questo senso è davvero un’archeologa della parola che va a esplorare gli spazi tra un verso e l’altro con una sensibilità particolare che solo chi traduce è in grado di praticare. I poeti che le fanno da guida in questa impresa sono Simonide di Ceo e Paul Celan, un poeta lirico greco il primo (556-467 a.C.), un poeta ebreo rumeno il secondo (1920-1970).

Entrambi si trovano di fronte a una società o a un sistema linguistico che sta cambiando forma, in bilico tra passato e modernità. Simonide vive l’epoca di passaggio da un’economia dei doni (dall’ottavo al quarto secolo a.C. circa) a un’economia mercantile, un’epoca in cui questi due meccanismi si sovrappongono e coesistono ancora. La parola chiave qui è ξενία (xenìa), l’ospitalità che sta alla base del gesto del dono. Un tempo, quando un poeta veniva invitato alla corte di un re o di un tiranno, quest’ultimo gli offriva un pasto caldo e il calore della propria casa in cambio dell’arte che quel poeta sapeva creare, arte che è anche memoria imperitura di chi viene celebrato all’interno dei suoi versi. Un sistema che si basa anche sulla mutualità, dando vita a una relazione che dura nel tempo e che nulla ha a che fare con la transitorietà di un semplice rapporto economico commerciale. Uno scambio quindi che è materiale e morale allo stesso tempo e in cui si cerca il debito: chi “dona” vede come posizione ideale quella di un indebitamento continuo. Simonide incarna perciò lo spirito del nuovo poeta, che si muove sul confine di queste due realtà e che le incorpora all’interno della propria arte.

Un dono non è una parte della vita interiore del donatore, sottratta e persa nello scambio, ma piuttosto un’estensione dell’interiorità del donatore, sia in termini spaziali che temporali, nell’interiorità del donatario. Il denaro nega la possibilità di una simile estensione, rompe quella continuità e imprigiona gli oggetti nei loro confini. Astratti da spazio e tempo come frammenti alienabili, essi divengono merci e perdono la loro vita di oggetti.

La parola chiave per comprendere la poesia di Celan è invece fremdheit («estraneità»). La solitudine di Celan ha le sue radici nello spaesamento che prova di fronte all’esercizio della poesia. Quando Celan scrive, anche lui, come Simonide, si sente in bilico, sull’orlo di due mondi, come se traducesse. Infatti, chi traduce si trova davanti a due codici diversi, il testo in lingua originale e quello tradotto. In qualche modo la traduzione è una sospensione a metà tra questi due universi, dove il traduttore non può che sentirsi un estraneo intento a trovare un’equilibrio perfetto. Questo è, nell’interpretazione della Carson, l’approccio adottato da Celan di fronte alle sue poesie perché – nonostante già nel 1948 si sia trasferito in Francia, dove rimane fino alla morte – sceglie di scrivere in tedesco, anche se si trova dilaniato dal dilemma che l’utilizzo di una lingua martoriata dal nazismo impone. È qui che le solitudini di due poeti apparentemente così diversi si intrecciano. Ne è una prova il confronto del Lamento di Danae di Simonide e de La Conversazione nella montagna di Celan, dove lo sconforto e l’impossibilità di comunicare di Danae e quelli di Klein in qualche modo combaciano.

Quando rileggo il frammento simonideo di Danae con queste parole di Celan in mente, la poesia diviene per me un ritratto della condizione del poeta: la sua solitudine, la sua marginalità, la sua percezione del rapporto tra visibile e invisibile, la sua capacità di resistere – attraverso la catastrofe fino alla metafora, al denominare, al pregare. E, certo, anche la sua lucida veglia.

Il rapporto tra visibile e invisibile è anche uno dei punti chiave della poesia simonidea. Per il lirico greco, come testimonia Plutarco, «la pittura è poesia muta e (…) la poesia è invece pittura che parla.» Così la poesia non serve solo a scalfire la superficie del reale e a interpretarla ma serve a mostrare l’invisibile, qualcosa che c’è e che esiste già ma che non siamo in grado di vedere.

Anne Carson avvicina la sua lente di ingrandimento ai versi dei due poeti e scova quei ponti che, a distanza di anni, rendono visibile un legame invisibile come se entrambi, Simonide e Celan, si stessero applicando in uno scambio di doni e instaurassero quella relazione durevole nel tempo che solo un’economia basata sulla xenìa può garantire. Ma questi doni, l’invisibile che si cela nei loro versi, vengono offerti gratuitamente all’autrice del saggio, che a sua volta li offre al lettore con un’interpretazione acuta e visionaria. Un intreccio di relazioni da cui si esce arricchiti.

-Davide

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