Cosa c’è di più bello di ascoltare Samanta Schweblin che chiacchiera con Fabio Geda? Riuscire a farle un po’ di domande a tu per tu, ovvio! Questo è quello che è successo: un piccolo gruppo di blogger, tra cui i sottoscritti, si è riunito in una caffetteria della lunghissima via Madama Cristina torinese per porre qualche domanda alla scrittrice argentina, che ora vive a Berlino, e tutto con il prezioso supporto di Giulia Zavagna che ci ha fatto da interprete.
L’argomento principale di conversazione è stato Kentuki, l’ultimo romanzo che la Schweblin ha scritto e che qui in Italia è stato pubblicato nella traduzione di Maria Nicola per la casa editrice Sur. Del romanzo e di quanto ci sia piaciuto ve ne abbiamo già parlato, ma per rigore di cronaca ricordiamo la trama. Kentuki racconta delle vite di un gruppo di persone, vite che scorrono parallele e che si alternano tra un capitolo e l’altro. La moda del momento sono i kentuki, peluche-robot dotati di una tecnologia rudimentale che consente un duplice scenario: essere o avere un kentuki. Se scegli di acquistare una connessione puoi seguire tutto quello che fa il proprietario del kentuki al quale la connessione è legata. La scelta della connessione è del tutto casuale, non sai chi ti ritroverai a spiare. Se invece acquisti un kentuki avrai in casa un amabile animaletto che ti segue tutto il tempo e dietro i cui occhi-telecamera si cela lo sguardo di un perfetto sconosciuto che non può comunicare con te tramite l’uso del linguaggio parlato. Tutti i personaggi del romanzo sono o hanno un kentuki e questo comporterà delle conseguenze, nel bene e nel male.
A proposito di narrazioni parallele, una delle tante curiosità a cui ha dato voce l’autrice è proprio la modalità con la quale il romanzo è stato scritto. L’idea corale della storia era già presente sin dall’inizio, quello che la Schweblin si è prefissata di fare era raccontare delle distanze tra le persone e delle limitazioni della comunicazione e del linguaggio. Le distanze in termini geografici perché tutti i personaggi sono sparsi in giro per il globo, ma soprattutto la distanza relazionale, tra realtà e finzione, nel mezzo simbolico del kentuki, che consente a due persone sconosciute e molto distanti di interagire, in qualche modo. E in questo senso va intesa anche la comunicazione. Da un punto di vista strettamente pratico, anche i capitoli sono stati scritti in senso consequenziale, alternando la voce di un personaggio all’altra, in modo che romanzo e storie procedessero insieme, a volte revisionando le storie singole e poi mescolando di nuovo tutto, come in un gioco di carte.
«Il kentuki mi aiuta a comunicare tutte queste idee. All’inizio si instaura un rapporto simile a quello fra padrone e animale domestico. Crediamo sempre di sapere cosa pensano i nostri animali, ma in realtà non hanno parole (…) con il linguaggio iniziano a comparire i primi problemi.»
L’idea di scrivere un romanzo a più voci, sulla tecnologia e sui rapporti umani, le è venuta in mente in un periodo della sua vita in cui viveva all’estero e viaggiava molto. Questo ha comportato, per comunicare con la famiglia, un uso intensificato della tecnologia, internet, cellulare, computer. E in più in quel periodo era esploso il boom dei droni e le è venuto facile domandarsi come fosse possibile che esistesse una tecnologia complessa come quella dei droni e non una cosa semplice come il kentuki. Da qui la scintilla per l’interesse sulla comunicazione. E da qui la nascita di quel libro meraviglioso che è Kentuki.
L’autrice ha scelto di lavorare sui luoghi comuni del genere e di scardinarli. Nel romanzo infatti non succede nulla di eclatante, non è un romanzo di grandi esplosioni o accadimenti, è piuttosto “un romanzo d’interni”, l’autrice era interessata a ciò che succede nel salotto dei suoi personaggi, per spiarne ossessioni e desideri. «La tecnologia è diventata molto naturale ma non esiste un manuale d’etichetta.» Per questo era importante che il lettore connettesse coi personaggi del romanzo e avesse gli stessi dilemmi morali.
Inoltre, parlando di letteratura e tecnologia negli autori sudamericani, Samanta Schweblin ritiene che ci siano due tendenze contrapposte, da un lato molti scrittori evitano di nominare la tecnologia nei propri romanzi e dall’altro ci sono autori che si tuffano direttamente nel genere. In realtà la tecnologia fa parte della vita umana e dovrebbe essere allo stesso modo parte dei romanzi, tanto quelli di genere quanto quelli ‘classici’.
Pur essendo nata e cresciuta nutrendosi di autori argentini, a livello stilistico Samanta Schweblin ha trovato il suo tono, la sua voce, nella letteratura nordamericana. Periodi brevi e asciutti, linguaggio semplice, il narratore che scompare. Se ci sono autori che hanno in qualche modo influenzato la stesura di questo romanzo? A posteriori, pensandoci bene, forse soltanto Cronache marziane di Ray Bradbury. Anche il romanzo dello scrittore è diviso su più piani narrativi, con una coralità di personaggi impressionante. Però questo vicinanza letteraria tra le due opere non è stata intenzionale o studiata a tavolino. Una casualità e un rapporto di post-produzione.
Non poteva mancare la domanda circa l’eventualità di acquistare un kentuki o una connessione, posto che esistano realmente. Ebbene, anche la Schweblin sarebbe curiosa di esplorare questa possibilità. Inizialmente, all’inizio del romanzo, pensava che sarebbe potuta essere tentata dall’acquisto di una connessione, ma svolgendo la trama si è resa conto di essere parimenti affascinata da entrambe le possibilità, quella di essere e avere un kentuki.
E voi? Cosa vorreste fare? Essere o avere?
-Davide & Marco