Nel panorama narrativo italiano, un po’ perché affetto da una certa dose di autocelebrazione e onanismo letterario, un po’ forse anche per una certa ritrosia da parte delle case editrici di trattare certi argomenti, non è facile coniugare la buona narrazione con la capacità di donare risalto a tematiche del quotidiano di cui magari si sente parlare spesso ma senza una reale cognizione di causa. Nato per non correre, il romanzo che Salvo Anzaldi ha pubblicato con CasaSirio, riesce efficacemente a sintetizzare queste due posizioni.
Salvo Anzaldi è un giornalista che vive a Torino e che da piccolo scopre di soffrire di emofilia. Una diagnosi che risale agli anni Settanta e che per questo ha comportato una difficoltà generale nel trattare con la malattia, perché non si era ancora realmente consapevoli della portata del danno e perché gli strumenti a disposizione della medicina dell’epoca erano ancora incompleti. La mia generazione ormai, in un modo o nell’altro, ha già sentito parlare di emofilia, ma chi sa esattamente cosa comporta a livello pratico e da cosa è causata questa malattia? Ecco, si potrebbe partire da questo libro, per regalarsi, oltre a qualche piccola nozione di medicina e biologia, una rinfrescante esperienza di lettura.
Nato per non correre è una storia autobiografica e perciò reale. Anzaldi racconta della sua esperienza con l’emofilia, del rincorrersi di diagnosi sbagliate e cieche, che in quel finire degli anni Settanta lo portano a peregrinare per le sale di vari ospedali, uno, quello che si potrebbe definire il più importante e risolutivo, è l’Ospedale Regina Margherita di Torino. Sale che hanno un che di immutabile ed eterno soprattutto per quei bambini che ne hanno avuto esperienza sin dalla fanciullezza. Ma l’elemento culminante del romanzo -e state tranquilli non è spoiler- è la maratona che correrà a New York insieme ad altri amici e pazienti emofiliaci. Un’impresa non da poco, considerate le difficoltà che la malattia pone non solo all’atto pratico ma anche in fase di allenamento.
Poco più in basso c’è la riga che svela l’inghippo:
Tempo di Cefalina o PTT chiede il prestampato in elegante carattere blu, 54.7 è la risposta alla quale è aggiunta ancora con la macchina da scrivere l’importante specifica V.N. inf. 40. V.N. sta per “valore normale” e indica in meno di 40 secondi il tempo necessario alla coagulazione del sangue. A me ne servono quasi 55, e in quei 15 secondi di differenza risiedono tutti i bernoccoli, le epistassi e i ginocchioni che hanno fin qui accompagnato la mia vita. PTT è l’acronimo di “tempo di tromboplastina parziale” e rappresenta ancora oggi il metodo più rapido, affidabile e utilizzato per diagnosticare l’emofilia.
(…)
Chi ha meno dell’1 per cento della normale disponibilità di Fattore VIII denuncia un’emofilia “grave”, mentre chi supera il 5 per cento è titolare di un’emofilia “lieve” che tende a sfumare in proporzione alla percentuale di Fattore VIII presente nel proprio sangue.
Anzaldi è capace di condensare un’esperienza che ha la dimensione di una vita in un volume dal numero di pagine contenuto. Alterna con guizzi atletici momenti di vera e propria divulgazione scientifica sull’emofilia a ricordi d’infanzia ed esperienze calcistiche e da maratoneta, rese vivaci da una prosa semplice ed equilibrata, in parte influenzata probabilmente dal mestiere che svolge.
Una delle sorprese più piacevoli –e lo dico da torinese– è stata quella di trovare molta ‘sabaudità’ in questo romanzo. Una buona dose è dovuta ai luoghi in cui Anzaldi ha vissuto. Dal Regina Margherita in primis per poi passare agli allenamenti al Parco del Valentino, al Parco Dora e al Parco Ruffini. Ma ci sono anche il Lingotto, l’area di Cascine Vica e di Rivoli e la descrizione di un deserto urbano del mese di luglio, un ricordo non troppo lontano nel tempo, con il suo sapore e i suoi odori. Oltre alla componente geografica e a quella sensoriale di sabaudo c’è anche il carattere. Dallo stile e dalla scrittura di Anzaldi emergono quel tono delicato, riservato e appena infiltrato dal timore di ‘disturbare’ tipico del torinese DOC, che pur di non mettersi troppo in mostra è capace di depennarsi anche dei meriti. Qualcuno lo potrebbe definire un atteggiamento sciocco, ma in realtà esprime l’apice della raffinatezza.
Il segmento dalla carica emotiva più forte è senza dubbio la maratona di New York. La descrizione che ne fa Anzaldi è evocativa e rapisce anche il lettore meno sportivo –ne sono un esempio lampante– tanto che sembra di essere lì, a correre al suo fianco e ad ascoltare Born to run, di Bruce Springsteen. Born to run è anche la canzone che ispira il titolo di questo romanzo, la canzone inno di tutta questa bella storia.
Se volete sapere qualcosa in più di emofilia, o se volete anche solo leggere una storia vera scritta con tutti i crismi, non potete lasciarvi sfuggire questo romanzo. Difficile rimanerne delusi.
-Davide