Arlecchino: il re dei diavoli

Oggi è il Giovedì Grasso, una scusa per darsi alla pazza gioia mangiando i tipici dolci di carnevale, le frappe (bugie qui a Torino) e le castagnole. Penso che tutti noi, ormai adulti, più o meno, ricordiamo i pomeriggi carnevaleschi della nostra infanzia vestiti chi da principessa, chi da supereroe dei fumetti, chi da sceriffo e chi da capo indiano. Oltre a questi, spuntavano ovviamente i costumi più classici, e a volte anche più sottovalutati, tratti dalla Commedia dell’Arte italiana. Toccò anche a me, piccolo Arlecchino. Nessuno però mi aveva mai raccontato l’origine della maschera colorata, che di colorato alla fine aveva soltanto il vestito.

Durante il percorso scolastico avevamo soltanto toccato l’argomento, che detto francamente non mi aveva mai affascinato, però, come succede spesso, una delle mie letture mi ha portato a ripensare alle maschere italiane, e menomale! Con la scuola avevo imparato che Arlecchino era una maschera della Commedia dell’Arte italiana, nata intorno al XVI secolo. Basata non su copioni e testi ben definiti, ma su canovacci, scenari. Tutte le rappresentazioni erano per la maggior parte all’aperto, come da tradizione dei zarri e dei cerretani, e le compagnie che eseguivano questi spettacoli erano principalmente formate da una decina di persone, otto uomini e due donne.

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I protagonisti di questi spettacoli erano le Maschere, ovvero personaggi stilizzati che indossano costumi caratteristici e che si distinguono per i propri gesti e comportamenti codificati. La maggior parte di  queste vengono ispirate dal volto del demonio, declinato in maniera stilistica, mentre altre sono semplicemente caricature di volti di persone.

Molte regioni italiane hanno la propria maschera, come Pantalone, Colombina, Pulcinella, ma a volte questa raggiunge anche l’estero, e diventa fenomeno culturale, che ispira altre forme d’arte, come la pittura, la letteratura e la musica. Una delle maschere più colorate e che più ha avuto influenza nell’immaginario collettivo, italiano e non solo, è proprio Arlecchino.

Arlecchino, famoso per il vestito di tutti i colori, è la maschera bergamasca, servo imbroglione, sempre affamato, protagonista de Il servitore di due padroni di Goldoni. Proprio per le sue caratteristiche e per il costume arcobaleno, è la maschera più conosciuta. Veloce, agile, sbruffone e innamorato di Colombina, non è sempre stato così colorato, e nemmeno così scanzonato.

Le prime tracce risalgono alla ritualità agricola. Si sa che Arlecchino era anche il nome di un demone ctonio, tanto da esser citato anche nell’inferno di Dante come Alichino, membro dei Malebrache, dei diavoli incaricati di sorvegliare i dannati che cercano di uscire dalla pece bollente. La radice del nome sembra essere germanica, Hölle König, letteralmente re dell’inferno, che poi viene traslato in Helleking, che poi diventa Harlequin, con chiara derivazione infernale (hell, inferno).

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L’ Alichino dantesco, illustrazione di Gustave Dore

Ovviamente questo fa intendere la chiara matrice cristiana del personaggio prima della maschera. Durante il Medioevo, a differenza dei secoli successivi, la morte era parte integrante del quotidiano, veniva antropomorfizzata in canti e dipinti, ma la forza di repressione verso i riti e le credenze pagani portarono in Francia, in Italia settentrionale e in Germania alla nascita di storie riguardanti gli exercitus mortuorum, guidati dal gigante a cavallo Hellequin. Questi cortei di morti attraversavano le varie contrade senza risparmiare nessuno sul loro cammino. Esistono tante testimonianze, di ambigua interpretazione, di preti e monaci salvati all’ultimo dalla furia dei cavalieri infernali. Esistono affreschi e arazzi che illustrano l‘armata di Hellequin mietere vittime nelle città medievali di tutta Europa.

Proprio per contrastare queste incursioni, intorno al XVI secolo a Francoforte si instaurò la consuetudine di pagare dei giovani che, una volta l’anno, conducessero di notte carri pieni di foglie, cantando canzoni per celebrare la memoria dell’esercito dei morti ed esorcizzare il terribile Hellequin. Questa tradizione ebbe tanto successo che cambiò il volto demoniaco del re degli inferi in un ghigno, e la sua armatura in un vestito cangiante di mille colori.

Successivamente al periodo della commedia dell’arte, la figura di Arlecchino influenzò la cultura, pop e non. A oggi conosciamo personaggi dei fumetti come Harley Quinn ma anche i Genesis scelsero proprio il nome Harlequin per uno dei loro album e numerosi personaggi di videogiochi e molti quadri sono ispirati alla maschera teatrale.

Ma, la penna della mia scrittrice preferita riuscì a farmi appassionare a questa maschera. Sto parlando ovviamente di Agatha Christie. Ispirata proprio da una statuina di ceramica raffigurante Arlecchino, scrisse una serie di racconti e poesie basati sulla commedia dell’arte, generando il misterioso Mr Quin, Harley Quin.

Il personaggio di Mr Quin è ai limiti del paranormale, quasi invisibile, sempre pronto a intervenire nel momento del bisogno e associato al bagliore di colori che sembra farlo apparire. Leggendo le storie che lo vedono come protagonista nei panni di un investigatore, dubitiamo della sua esistenza, visto il surrealismo. Forse proprio per questo, era il personaggio preferito dalla regina del giallo.

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Copertina della prima edizione inglese de “Il misterioso Mr. Quin”

Una figura talmente misteriosa e affascinante che nel 1928 ne trassero un film, stranamente intitolato The Passing of Mr. Quinn (con due n, non si sa il perché). Di questo film, andato ormai perduto, rimane soltanto qualche fotogramma. Christie non apprezzò mai l’adattamento per il grande schermo.

Arlecchino, le sue origini e tutto quello che lo riguarda, rimangono sempre un mistero, colorato ma anche grigio, servo e padrone, furbo e sciocco, pronto a fare da mattatore, ma anche a passare inosservato, e a diventare semplice raggio di luce bianca, che vibra di tutti i colori.

-Marco

3 pensieri su “Arlecchino: il re dei diavoli

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