Gli Academy Awards si avvicinano e, in preparazione all’evento, che richiede una rigorosa maratona notturna, un po’ dei film candidati li ho già visti. L’ultima aggiunta, e direi un’aggiunta stupenda, è Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino, che è nelle sale nostrane dal 25 di gennaio.
Il film, tratto dal libro omonimo di André Aciman, pubblicato in Italia da Guanda, è stato candidato a ben quattro premi Oscar. Miglior film, Miglior attore protagonista, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior canzone (con Mistery of Love, di Sufjan Stevens). Ma questi riconoscimenti non sono l’unico motivo per il quale correre subito al cinema e guardare questo capolavoro dall’anima parzialmente italiana.
La storia è quella di Elio Perlman, interpretato da uno strepitoso (so già per chi tifare il 4 marzo) Timothée Chalamet, diciassettenne che trascorre le sue estati nella villa settecentesca dei genitori, una famiglia dalle radici culturali ricche e affascinanti, tra le province di Brescia e Bergamo. Quando? Siamo nel 1983, un’estate come un’altra per la famiglia del ragazzo. Tuttavia, per gli studi di dottorato, si unisce ai tre un giovane studente americano di 24 anni, un certo Oliver, interpretato da Armie Hammer. I due ragazzi si ritroveranno a trascorrere insieme molto tempo fino a quando la loro relazione assumerà toni romantici e di grande intimità.
Ma non si tratta di una semplice storia d’amore. È prima di tutto un percorso di formazione, di crescita sentimentale ed emotiva che ruota attorno a una forza trainante e centrale, il desiderio. Il desiderio si presenta nell’ossessione di Elio per Oliver, nei piccoli momenti di quotidiana intimità rubati agli studi del dottorando. Un desiderio che non ha nulla di malsano e che è carico dell’emotività di un ragazzino indeciso, che si trova di fronte a una passione così forte da non sapere come gestirla efficacemente. E l’unica cosa che può fare è crescere, come gli intima lo stesso Oliver, con un biglietto lasciato sulla sua scrivania.
I due sono persi in una continua e giocosa competizione intellettuale che ha come palcoscenico una idillica campagna lombarda, tra riferimenti culturali a scrittori e scultori classici. Un universo privato separato dal resto del mondo, perso in chissà quale epoca.
Guadagnino riesce a coinvolgere abilmente tutti i cinque sensi. Chiamami col tuo nome è infatti un film che definirei sensoriale. Quando Elio maneggia le albicocche, quando il ragazzino ascolta la musica o suona, quando i due amanti si ritirano nella campagna, in piccoli santuari privati, sembra che siamo noi stessi a toccare, a sentire, a vedere. È una vera e propria cornucopia di sensazioni che rende un film dalla trama apparentemente lineare, semplice, quasi banale, qualcosa di vivido e concreto. Una volta usciti dalla sala sembra quasi di averle vissute, tutte quelle esperienze, quella crescita.
E la recitazione di Timothée Chalamet contribuisce immensamente a questo. La paura, l’insicurezza e l’indecisione di Elio la proviamo sulla nostra pelle. Quando tutto sembra fermarsi e il dolore sembra sommergerlo anche noi assistiamo paralizzati e impotenti. Anche noi abbiamo amato e vissuto. Anche noi, alla fin fine, siamo stati (o saremo prima o poi) Elio.
Il rischio principale è quello che potremmo chiamare del non vissuto, il rischio, nel tentativo di ripararsi dal dolore e da possibili sentimenti feriti di non fare, non vivere, non essere. Anche per questo è un film imperdibile, perché il suggerimento che si cela dietro alla trama è qualcosa di universale, che si può applicare benissimo a qualsiasi contesto.
E quindi, non perdete nemmeno voi l’occasione di fare del bene ai vostri occhi e alle vostre orecchie. Andate a vedere Chiamami col tuo nome, e immergetevi nei personaggi di una storia che vale sempre la pena di raccontare, mai banale.
-Davide
Hai colto tutto.
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Grazie Silvia!
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