Nella vita di un lettore capita a volte quella piacevole esperienza per cui un libro, che si attendeva magari da tempo, non solo rispetti le aspettative ma le superi abbondantemente. Questa è la situazione che ci siamo trovati di fronte quando abbiamo letto La verità su tutto, il nuovo romanzo di Vanni Santoni pubblicato per Mondadori. Qualcosa di così radicalmente diverso da quello che di solito leggiamo – e parliamo in particolare di narrativa italiana – che forse non poteva che essere altrimenti.
La verità (che abbreviamo come si fa con gli amici, perché è così che ormai lo consideriamo, un amico) racconta la storia della ricerca spirituale, una vera e propria quest come quella dei giochi di ruolo, di Cleopatra Mancini, sociologa che un giorno, trovandosi di fronte al video porno di quella che crede essere la sua ex ragazza, inizia a interrogarsi sulla natura del male. Questa cerca che parte da fatti per così dire banali assume proporzioni tanto gigantesche da portare Cleo, tramite un percorso di esperienza diretta, a fondare una propria comunità spirituale. A diventare una specie di santona, insomma.
Il libro è scritto nella forma di una confessione che Shakti Devi – aka Cleo – concede a un misterioso ascoltatore. In questo lungo racconto il punto di vista è uno solo, quindi va da sé che tocca affidarsi al a quella che potremmo definire una narratrice parziale, se non addirittura inaffidabile. Il libro, diviso in sei parti, snocciola una dietro l’altra le tappe di questo percorso di formazione spirituale, che prende a piene mani dalle dottrine orientali, in particolare quelle tantriche.
Nella verità, si dipana un meta-universo che evoca libri, personaggi ed esperienze riconducibili al vissuto dell’autore. Così fanno capolino Simone Weil, nella forma di tulpa, lo scrittore Morelli, che arriva dritto dritto dal Rayuela di Cortázar, un certo V., che intervista Cleopatra sul tema dei free party. E molto altro ancora, non ultimi il tema della psichedelia e una nutrita sfilza di titoli da appuntarsi su un pezzo di carta durante la lettura.
Nel mezzo di tutto questo, Cleo, che era partita domandandosi del bene e del male, si trova di fronte una serie di dilemmi morali che hanno a che fare con la questione della salvezza. Se una persona si spende esclusivamente per la propria salvezza individuale, per riunirsi col tutto, non sta compiendo un gesto straordinariamente egoistico, visto che ci sono persone là fuori che questa salvezza non l’hanno trovata e soffrono? Una questione che, come in un cerchio, torna al male dell’inizio, con l’argomento del potere e delle sue conseguenze.
Che non fossi sola, lì dentro, lo sapevo: troppi i ragnetti negli angoli, gli insettucoli senza nome che ogni tanto venivano a morire nel piatto dove avevo mangiato la mia farinata o il mio riso; troppi gli scricchiolii notturni, dalle travi del soffitto, a volte forti come squittii, che nella mia ignoranza entomologica avevo stabilito esser di tarli; ma quella larva, che quando era ancora bruco si era scelta per svernare l’albicocco interno, più salvo dal freddo, mi era di più cara compagnia: sapevo che non era morta, che non era ormai un involucro secco, magari vuoto – cosa c’è di più triste di una larva che senza saperlo muore? – perché captavo, nei giorni lunghi della meditazione e a volte nelle notti, dato che il sonno scemava, un po’ per il freddo, un po’ perché la mente, messa a bada, chiedeva minor riposo, un movimento infinitesimo che non pareva di vento; una singola, minuscola pulsazione, o singulto. E una volta, sfiorandola appena con un polpastrello – col polpastrello dell’anulare, piano, pianissimo – sentii qualcosa; definirlo un vibrare sarebbe troppo: una tensione, ecco, che dall’interiorità di quel bozzolo aspirava all’esterno, al compiersi di un atto lungamente atteso; una tensione che era anche – ne ero convinta, per quanto ogni convinzione, in quella solitudine, vestisse non dico i panni, ma almeno il minuscolo distintivo della follia –, che era anche gioia.
Se solo, pensavo, se solo avessi una tensione verso l’assoluto – verso il discernimento – pari alla tensione di quella crisalide verso la farfalla, sarebbe forse possibile, forse possibile, arrivare a qualcosa. Pensavo, e tornavo a meditare, cercando e ritrovando la posizione migliore per le gambe, grattandomi subito per non farlo dopo, portando l’attenzione al diaframma e cercando poi di elevarla, di elevarla subito assieme al respiro…
La parte più bella – anche se è un’affermazione dal puro valore soggettivo – è forse la quarta. Cleopatra, dopo aver visitato una serie di comunità spirituali (tra le quali a chi è torinese salterà all’occhio quella di Esmeralda, che ricorda una certa «setta», mi si perdoni il termine, responsabile della costruzione di un grande tempio sotterraneo) ed essersi fermata a meditare a lungo, si ritrova in questo luogo, detto Paradisino, dove scopre una serie di personaggi che diventeranno un po’ la sua famiglia d’elezione. Antonio, Girolamo, Nami, Sayori e Alejandro sono figure simboliche, dei veri e propri aiutanti della protagonista che accompagneranno Cleo verso la tappa finale del suo viaggio.
Ma qual è questa verità che evoca il titolo? Forse la capacità di non prendersi mai troppo sul serio, come fa la nostra protagonista che, anche quando si trova davanti alle situazioni più ingessate ha un modo tutto suo di decostruire l’aura di sacralità che certi argomenti portano con sé. La sua ironia sferzante riecheggia in tutto il libro e forse rappresenta il cuore pulsante della storia, la storia di un percorso spirituale che solo incidentalmente racconta anche delle ombre della nostra società e dei nostri limiti.
-Davide