Questa non è propaganda è il terzo saggio – il terzo volume pubblicato, Gotico americano, è un romanzo – che la collana Bompiani Munizioni, diretta da Roberto Saviano, porta in libreria. L’autore, Peter Pomerantsev, è uno studioso di propaganda e informazione e con il suo primo libro, Niente è vero, tutto è possibile, ha vinto il Royal Society of Literature Ondaatje Prize. Per il nuovo testo ha attinto ad articoli pubblicati su Granta, su American Interest, sul Guardian e sulla London Review of Books, per poi sviluppare un’acuta riflessione basata sui fatti e su una ricca bibliografia (e sitografia). A volte, quando una storia o un saggio ci colpiscono particolarmente capita di pensare l’espressione il libro dell’anno. Questa non è propaganda è qualcosa di più, è il libro della nostra epoca, quello di cui abbiamo bisogno per iniziare a ripensare la nostra realtà.
Il libro di Pomerantsev è una lunga riflessione sugli scenari di disinformazione odierni. Quello che fa è analizzare casi studio, se vogliamo spingerci a definirli in questi termini, diversi, dove la proliferazione di fake news e di disinformazione sono state e sono tuttora strumento fondamentale di manipolazione politica per i governi autoritari – ma non solo. Si passa dalle Filippine alla Russia, dalla Serbia agli Stati Uniti, non c’è un angolo di mondo che abbia trovato rifugio da questa malattia. Le riflessioni dell’autore sono accompagnate dai ricordi famigliari. Il padre, giornalista, e la madre, documentarista, subirono censura e persecuzioni da parte del KGB e questa terribile esperienza funge anche da contraltare per confrontare i più recenti metodi di monitoraggio degli umori della popolazione con quelli di un tempo.
Il fulcro della questione risiede nel fatto che chi ha interessi specifici nel manipolare le informazioni oggi adotta una strategia ben precisa che si basa sul white-jamming, così come lo definisce l’analista dei media russo Vasilij Gatov. Alle persone viene fornita una sovrabbondanza di informazioni false che si mescolano a quelle reali e in un certo senso le contaminano. Questo perché il pubblico da un lato diventa diffidente nei confronti di qualsiasi notizia e dall’altro si lascia pervadere da un’aura di cinismo che lo spinge a pensare che dietro a ciascuna informazione ci sia qualche oscura trama impossibile da dimostrare. Anche dietro “un’intenzione benevola” ci sarebbe un piano malvagio. Questo porta la popolazione a perdere fiducia nei mezzi di informazione e ad affidarsi a figure forti che si pensa siano le uniche a poter risolvere la situazione (Trump, Putin, Duterte, per fare qualche nome).
Per riuscire nella loro impresa, le forze di disinformazione, hanno imparato a sfruttare con grande maestria i potenti mezzi tecnologici a nostra disposizione. Così sui social è un fiorire di hater, troll, bot, commenti costruiti ad arte per creare un preciso immaginario nella mente di chi li legge, ma soprattutto per dividere. Questa tecnica è stata tanto perfezionata che ormai da decenni esistono vere e proprie fabbriche di troll. Il caso della manipolazione russa delle elezioni americane del 2016 per favorire l’ascesa di Trump è solo uno dei più recenti esempi di questa attività. La conseguenza peggiore di questa forma bieca di manipolazione delle informazioni è che è diventata una sorta di nuova normalità. Una conseguenza mostruosa percepita anche da Lyudmila, una giornalista di San Pietroburgo (ma è molto più di questo) che nel 2015 si infiltrò nell’IRA (International Research Agency) russa, una vera e propria fabbrica di troll, quando riuscì a smascherarne le attività.
Ma invece del previsto scalpore scoprì che molte persone, compresi altri attivisti, si limitavano a stringersi nelle spalle per le rivelazioni. Questo la fece inorridire ancor di più. Non solo le menzogne sfornate dalla fabbrica di troll diventavano realtà, ma la sua stessa esistenza veniva considerata normale.
La proliferazione di profili falsi, tutti molto simili tra loro, con le stesse idee e gli stessi commenti livorosi o insinuanti lasciati sotto questo o quel post, crea una “normalità surrogata”. Chi apre i social si trova sempre di fronte alle stesse ‘opinioni’, agli stessi ‘sfoghi’, tanto che se ne assuefà e al rumore di fondo se ne aggiunge altro ancora. Il risultato ultimo è l’apatia. Un senso di scoramento generale che ti porta a pensare che tanto nulla cambia, quindi è inutile anche solo parlare di un problema, figurarsi lottare attivamente per cambiare le cose. Abbiamo sempre più strumenti per cambiarle ma manca la volontà di ferro necessaria per farlo.
I troll spostano l’attenzione dalla questione reale e rendono disomogenei movimenti rivoluzionari, dividono le persone, fomentano odio e insinuano rivelazioni sconvolgenti sulle persone o le istituzioni di cui in quel momento sono intenzionati a indebolire la credibilità. Spesso, come dimostrano i casi citati nel volume, questo comporta gravi rischi per chi è vittima di questi gli attacchi, persone che lottano per la libertà di parola e la democrazia. Non è un caso che chi istruisce questi troll abbia ideato delle strategie molto simili a quelle adottate dai movimenti rivoluzionari di democratizzazione (come le rivoluzioni colorate e la Primavera araba), quasi in una grottesca presa in giro con lo scopo evidente di delegittimarli.
Non c’è una formula magica per riuscire a debellare la mole di disinformazione che ci piove addosso ogni giorno, né per fermare chi è interessato a farcela piovere addosso. Possiamo solo sperare che le Lyudmila, le Maria Ressa, i Srdja, gli Alberto Escorcia e i Peter Pomerantsev del mondo si moltiplichino e che continuino la loro lotta per una realtà in cui la libertà di parola non possa essere accostata impunemente alla disinformazione e ai più oscuri interessi politici. E che anche noi troviamo il coraggio e la lucidità per parlare di fronte alle ingiustizie, e non cedere all’apatia e all’idea che certe cose non ci tocchino.
-Davide
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