Il racconto che state per leggere è stato scritto da una mia cara amica, Jennifer Radulović. Jennifer è scrittrice, storica e divulgatrice. Ha pubblicato Federico Barbarossa e la Battaglia di Monte Porzio Catone (Jouvence 2014), La grande invasione. L’arrivo dei Mongoli (Res Gestae 2015), Le Novelle dei Morti (ABEditore 2017). Ha anche tradotto dallo spagnolo Allende massone di Juan Gonzalo Rocha (Mimemis 2015) e dal latino Carmen miserabile di Maestro Ruggero (Marietti 2012). Nel giugno 2016 fonda a Milano Il Circolo del Gotico, un circuito nazionale di eventi di carattere divulgativo sulla letteratura gotica e l’esoterismo occidentali. Ho avuto il piacere di presenziare a molti di questi eventi e posso assicurarvi che Jennifer è una relatrice esperta, dal linguaggio preciso e raffinato. Vi lascio alla sua abile penna, così potrete scoprirlo di prima mano.
Sono affetta da una singolare forma di affezione che sono usa chiamare bulimia libresca. In un altro momento avrei detto bramosia, ma in questo caso bulimia, lo ammetto, è decisamente più calzante. Ne ho preso coscienza durante una bella nottata estiva e per la prima volta ho capito che non avrei voluto smettere. Ma andiamo con ordine.
Ebbene, eccomi al Salone del Libro di Torino, il cellulare che vibra ogni due minuti, amici da salutare, maestri cui inchinarsi, mercanti di carta da biasimare, costruttori di falsi miti da esecrare, sacrifici di giovani brillanti da lodare. Io sono tutta ardore, nel senso etimologico del termine, perché fa caldo, un caldo allucinante, opprimente, afoso e chi mi conosce lo sa: sa che la primavera italiana, per me, è l’estate africana e quando la gente va ancora in giro in jeans e maglioncino io sono già in gonna e sandali. Al freddo, con le labbra che si infrangono come piccoli cristalli, la brina sulle sopracciglia e le guance rosse potrei mettermi anche a dissertare sulle dispute quodlibetali di Tommaso d’Aquino, ma al caldo no. Non chiedetemi il mio indirizzo, la mia mail o il mio cellulare, mi sento confusa, non ragiono: a ogni istante lo spettro di una caduta, di piovere a terra con tutto il mio fardello di pinguedine, schiacciata dalla canicola.
Ed ecco, arrivo allo stand del mio editore: io sono qua e là, nel senso che da una parte sono poggiata accanto a insigni colleghi come autrice, dal lato opposto me ne sto in maniera ben più discreta come traduttrice. Si sbircia di qui, sbircia di lì, «Ma quante belle cosine…», «Ah caspita, com’è possibile che IO non conosca questa edizione di Bloch», «Oh numi, questo Barthes mi manca, tragedia!», «Sì, questo lo voglio», «Oddio, devo averlo!», «Tu sei mio!» et similia.
E poi vedi Lui.
Non lo conosci, ma lo sai che è ungherese, lo capisci dal nome e tu con l’Ungheria – si sa – hai un rapporto particolare. Un nonno magiaro mai conosciuto (morto prima della tua nascita), il primo romanzo scritto da ragazzina ambientato a Budapest, e poi gli studi sugli Ungari, il dottorato sui Mongoli, il trimestre di appassionanti lezioni all’Università ELTE… Sì con l’Ungheria tu, Jennifer, hai un legame speciale.
Come scelgono i libri i bulimici libreschi? Di solito hanno due sistemi e li utilizzano entrambi. Il primo è scegliere ciò che conoscono, cioè spieghiamoci, quel libro in particolare non l’hanno ancora letto, è ovvio, però sanno bene chi è l’autore. Magari al tempo l’hanno conosciuto perché legato allo scrittore precedente (in ordine di lettura) o perché è originario dello stesso Paese. In altre parole, questi bulimici anche se non hanno avuto notizia di un certo libro, hanno capito il mondo dell’autore, che è un mondo con una precisa fisionomia. Di solito, in questa maniera, si inizia a leggere tutta la produzione di uno scrittore: succede, infatti, che ti capita quasi per caso un volume tra le mani, scopri che ti piace – anzi, che ti fa impazzire – e inizi a cercare tutti i titoli in commercio, ma a un certo punto si esauriscono anche se è vivo, attenzione, perché i ritmi della lettura sono sempre più veloci di quelli della scrittura. In questo caso si passa a qualcuno che è vicino a quell’autore per genere o personalità. È così che alla fine molti di noi possono annoverare nel loro curriculum un periodo russo, un periodo francese, un periodo americano e via dicendo. Si diventa monografici seriali.
Poi c’è l’altro sistema: quello “a pelle”. Non lo conosci, non sai chi è, cosa ha fatto, da dove viene, ma senti che lui ha qualcosa da dirti. Quel libro, allora, deve essere tuo e sai che, giocando a questa roulette russa, tante volte hai scoperto delle perle nei porcili e allora provi ancora e ancora perché, anche solo per quell’unica volta in cui è andata bene, ti dici che ne vale la pena.
Eccomi di nuovo allo stand. Fa caldo, un caldo torrido, asfissiante e come dicevo io sono obnubilata, non capisco nulla, l’Ungheria ha sempre un’attrazione ineffabile. Sebbene in pochi lo sappiano, moltissimi matematici, geni, scopritori, scienziati e inventori sono magiari e io, nella mia mente – tra romanticismo decadente e pseudoscienza jenniferiana – ho sempre immaginato che un motivo c’è e che è nascosto lì, in quella lingua straordinaria e imperscrutabile. Mi sono detta tante volte che imparare e utilizzare una lingua del genere non può che allenare le sinapsi mentali e non è un caso se poi in musica (e la musica è matematica) gli ungheresi utilizzino le scale modali. E poi il metodo Kodaly! Insomma, la genialità in qualche caso può essere anche stimolata dal contesto in cui si nasce, si cresce, si vive.
Sono quindi allo stand del mio editore con tutti questi pensieri per la testa, immersa in un’afa apocalittica mentre lo vedo: vedo un libretto sottile, bianco-nero vestito, di Sàndor Ferenczi: “Thalassa. Una teoria sulla genialità”. «Devi essere mio!», penso. E mio fu.
Torno a casa, leggo, leggo, leggo, scrivo, scrivo, lavoro, leggo, lavoro, leggo che è poi tutta la stessa cosa, perché tutto il mio mondo gira lì e finalmente prendo Ferenczi. Sono le 4 di notte. Ho sonno, sono sincera. Mi sento stanca, ma la voglia è irresistibile e allora mi dico che nessuno mi sta guardando e non sarà un grande affronto alla letteratura, all’editoria, alle curatele, ai traduttori, agli editor, ai collaboratori in nero e a quelli a gratis se per una volta – dico, una volta soltanto – invece di leggermi la quarta, l’introduzione, l’apparato critico, il colophon, invece di annusare la carta come una maniaca e capire chi c’è dietro questa edizione, inizio a leggere il libro dal testo nudo e crudo. E che cavolo! Sono stanca ho detto. Stanchissima, domani farò le cose come si deve, intanto mi prendo un assaggio e nessuno lo saprà, nessuno se ne avrà a male.
Inizio. «Abraham, questo appassionato esploratore delle organizzazioni pregenitali, ha attribuito l’eiaculazione veloce….». Mah…
«Erotismo uretrale…». Son problemi.
«L’erezione non si verifica…». Allarmante.
Ma quanti giri per arrivare alla genialità.
Ah guarda! Cita Freud, era suo amico, hanno lavorato insieme. Tutto spiegato: eravamo in pieno clima positivista, studi sull’inconscio, la fase anale, la fase non so quale altro orifizio non avete usato in psicanalisi. È una questione di categorie mentali.
«L’efficace cooperazione delle innervazioni anale e uretrale è indispensabile ai fini di un normale processo di eiaculazione», e daje, basta adesso. Uffa, mi alzo un attimo, ho bisogno di bere. Ché dopo tutte queste cose corporali un sorsetto di Coca-Cola (“droga-cola” per me) mica mi ucciderà.
Ritorno a letto. Riagguanto il libro chiuso da cui spunta il segnalibro come una bandierina: “Thalassa. Una teoria della genitalità”.
Genitalità, cioè genitali, non genialità.
E ora capisco certi sguardi straniti del personale dello stand alla mia esaltazione per avere questo libro. «Saprai tu, io non l’ho letto», mi hanno detto.
E così, nel cuore della notte, sono le 4.30, scoppia la mitica ridarola, quella incontenibile che storpia anche la più gran gnocca della terra, quella con le gengive sguaiate che proprio non riesci ad arrestare e nell’ordine il mio vecchio gatto Oleg mi salta addosso tutto festoso, contagiato dalla tempesta di endorfine (ma saranno endorfine? Che ne so, ne parlano tutti), Cassiopea miagola e si strofina, Cherubino visibilmente disturbato e contrariato resta muto, alza un po’ la testolina e mi guarda con disappunto, perché ci crederete o no, di gatti ne ho avuto tanti, ma uno strafottente come lui mai. E poi mi guarda dalla piccola fessura nera degli occhi verde mela e sento proprio che pensa «Cazzo ridi?». E più lo guardo e più mi viene da ridere, perché mai termine fu più pertinente. E così, in un’assurda notte di maggio, il pene ha alleviato le mie pene, ma non come avreste potuto immaginare.
Questa storia mi ha insegnato una grande cosa e cioè che nei libri cerchiamo qualcosa che pre-esiste nella nostra mente. Nel titolo ho letto ciò che volevo leggere, perché ero così ebbra del mio pensiero da non vedere più la realtà.
Jennifer Radulović
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