Il Saggiatore | Tokyo riconquistata di David Peace, la recensione

Dodici anni fa David Peace ci aveva lasciati appesi con Tokyo città occupata, secondo volume di una trilogia dedicata alla capitale giapponese dove da anni ormai vive lo scrittore, e ora finalmente abbiamo tra le mani l’ultimo tassello: Tokyo riconquistata. Il romanzo, pubblicato per Il Saggiatore nella traduzione di Marco Pensante, come i due che lo hanno preceduto (e che si possono leggere indipendentemente l’uno dall’altro), si ispira a un evento storico realmente accaduto e da questo parte per costruire una storia in cui la finzione letteraria e i fatti sono strettamente intrecciati tra di loro.

Nell’appiccicoso luglio del 1949, a Tokyo, scompare misteriosamente il Presidente delle ferrovie nazionali, Sadanori Shimoyama. L’uomo viene presto ritrovato, morto, non si sa se suicida o assassinato. Entrambe le ipotesi sembrano coerenti e plausibili: Sadanori negli ultimi tempi era sotto pressione per il licenziamento di migliaia di dipendenti delle ferrovie e, come se non bastasse, aveva ricevuto numerose minacce di morte. Questo «incidente», che è stato storicamente paragonato, in termini emotivi e politici, a quello che è stato l’assassinio del Presidente Kennedy per gli americani, è l’elemento fattuale attorno a cui ruota tutta la storia di David Peace. Nel corso del tempo la morte di Shimoyama, che passa da investigazione attiva a cold case, diventa una vera e propria ossessione per i tre protagonisti: Harry Sweeney, che indaga sulla scomparsa nel 1949, Murota Hideki, ex poliziotto che nel 1964, nel tentativo di scoprire che fine abbia fatto lo scrittore Kuroda Roman, inciampa nel caso Shimoyama e Donald Reichenbach, un traduttore e professore tormentato da un oscuro passato e dalla verità.

Sullo sfondo ci sono tre Tokyo molto diverse tra loro: una Tokyo ancora occupata dagli americani, una che invece si prepara a celebrare le Olimpiadi e che tenta di scrollarsi le ombre di quello che è successo soltanto pochi anni prima e, infine, una Tokyo in lutto, che si prepara a salutare il suo Imperatore e ad accogliere una nuova epoca. Sopra tutte e tre grava un caldo soffocante e pesante, un’estate inclemente che affligge i tre uomini e gli abitanti di questa grande città irrequieta, ancora dolorante per le ferite dell’Occupazione e della Seconda guerra mondiale.

David Peace riesce a dare un affresco piuttosto preciso e nitido di Tokyo, dimostrando ancora una volta di conoscerla bene e di averla girata a lungo. Anche Harry, Murota e Donald la attraversano in lungo e in largo. Di fronte alla possibilità di prendere un taxi o qualche treno preferiscono andare a piedi e respirarne gli odori, sempre intensi e disgustosi, sintomo di quell’oppressione e di quell’ossessione che li tormenta. Questa sensazione è amplificata dalla scrittura sempre più febbrile e allucinata dell’autore – forse perfino psicotica – che abbonda di aggettivi e ripetizioni, ripetizioni di parole o intere frasi che ritornano da un capitolo all’altro. I periodi lunghi, ricchi di virgole, punti e virgola e due punti, abbondano e lasciano senza fiato. Anche il lettore è oppresso, anche il lettore è tormentato.

Queste ore, le prime ore, nel cellophane, passano, passano diventando giorni, nel cellophane, questi giorni, i primi giorni diventano settimane, avvolte nel cellophane, queste settimane, le prime settimane, ti vedono avvolto nel cellophane: a Shimbashi, nell’Hotel Dai‑Ichi, nella tua camera minuscola e angusta; a Nihonbashi, nel Palazzo Mitsui, nel tuo ufficio piccolo e angusto, ti hanno visto avvolto nel cellophane; parte della procedura, il cellophane, l’attesa, tutto parte della procedura, l’attesa nel cellophane: le microspie nell’albergo, le microspie nell’ufficio, lo sai, lo sai; fai il tuo lavoro e basta, il tuo lavoro di giorno: (…) mesi afosi dopo mesi afosi: nel cellophane, quell’estate nel cellophane, ad aspettare con pazienza, tutto parte della procedura…

Quando Harry Sweeney costeggia pensieroso il fiume Sumida, quando Donald Reichenbach sale e scende dai treni assicurandosi di non essere pedinato o spiato, cambiando una linea e poi l’altra, sembra di assistere a un lungo girotondo di persone che si avvicinano sempre più finché, alla fine, non cascano tutte per terra e la storia arriva al suo capolinea. La conclusione è che dal passato non si scappa. Mai. Questo lo sanno bene i protagonisti ma anche Tokyo e i suoi abitanti.

Leggendo Tokyo riconquistata è subito chiaro perché David Peace ci abbia messo così tanto a scrivere questo romanzo. Le fonti da consultare e da studiare devono essere state tante, tantissime. Un fiume di documenti e fogli di giornale pari quasi ai fiumi di sangue che scorrono tra le pagine. Una storia che, se non si ha timore di affrontare un tomo così imponente, sa gratificare con l’immagine di una città ferita che cerca di rinascere disperatamente dalle sue macerie. Un’immagine poetica e originalmente riportata.

-Davide

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