Con la fine di novembre torna uno degli appuntamenti mensili che preferiamo: si tratta della #ReadChristie2020, la challenge di lettura organizzata dall’Agatha Christie Ltd. che ci ha accompagnato in quest’anno così particolare (e che tornerà anche in quello che verrà, come hanno rivelato sul loro profilo Instagram!).
Per la penultima tappa la consegna richiedeva al lettura di una storia (romanzo, racconto) che fosse ispirata agli eventi della vita di Agatha Christie. Noi abbiamo deciso di giocare un po’ con questa definizione per parlarvi di C’era una volta, romanzo particolare e antesignano di un certo tipo di gialli.
Death Comes as the End, tradotto in italiano con C’era una volta, disponibile nella traduzione di A. M. Francavilla, viene pubblicato nel 1944 negli USA da Dodd & Mead (pratica comune per la maggior parte delle opere della Christie) e nella collana del Collins Crime Club l’anno successivo. La particolarità di questo titolo è la scelta dell’ambientazione, che Agatha Christie stessa spiega in una nota all’inizio del romanzo.
L’azione di questo libro si svolge sulla riva occidentale del Nilo, a Tebe, nell’anno 2000 a.C. Le località e il racconto sono puramente casuali e non hanno alcun riferimento con la storia. Qualsiasi località o altra epoca poteva servire allo scopo. Accadde però che l’ispirazione e i caratteri descritti nel romanzo, e la trama, furono tratti da papiri egiziani dell’XI dinastia rinvenuti parecchi anni fa dalla spedizione del Metropolitan Museum di New York, in una tomba di fronte a Luxor, e tradotti dal professor Battiscombe Gunn per il Bollettino del museo.
Sono pochi i titoli scritti da Agatha Christie che contengono una nota dell’autrice (su due piedi ci viene da pensare soltanto a Il caso del dolce di Natale e Carte in tavola), e in questo caso siamo contenti di avere una testimonianza sulle origini di C’era una volta e su come è stato costruito.
A chi si approccia a questo romanzo per la prima volta, magari senza una conoscenza anche sommaria dell’autrice, potrebbe sembrare una scelta stravagante, quasi un trucco per raccontare una storia vecchia in una nuova veste. In realtà però conosciamo bene la passione della Christie per l’archeologia, passione nata anche grazie al marito, l’archeologo Max Mallowan.

Tebe, 2000 avanti Cristo, secondo mese dell’inondazione e ventesimo giorno: Renisenb, giovane vedova, torna a vivere con la sua famiglia dopo aver perso il marito, Khay. La sua però non è una semplice famiglia. Imhotep, il padre, è uno dei sacerdoti del Ka. Col ritorno della giovane, decide di presentare a tutti la sua nuova compagna, o concubina, Nofret, prima di lasciare Tebe per un viaggio verso il nord. Nofret non viene vista di buon occhio dai figli del sacerdote, Sobek, Ipy e Yahmose, anche perché semina zizzania. Nemmeno le mogli dei giovani amano la nuova arrivata, e cercano anzi di scacciarla. Non hanno fortuna, visto che Nofret riesce a raccontare a Imhotep di questi tentativi, così che lui minaccia di diseredare la prole. All’improvviso Nofret muore… sembrerebbe una morte accidentale, ma come al solito l’apparenza inganna.
Al di là del contesto, Agatha Christie si è limitata a fare quello che le riesce meglio: raccontare la natura umana, con tutte le sue gelosie, aspirazioni e macchinazioni. Al lettore però pare davvero di essere nell’antico Egitto. Risulta evidente una scrupolosa ricerca dei dettagli: i rituali, le usanze e le tradizioni di un popolo ormai lontano nel tempo. In aiuto le viene anche un noto egittologo e amico, Stephen Glanville, a cui il romanzo è dedicato.
Al professor S.R.K. Glanville.
Caro Stephen, sei stato tu che mi hai suggerito per primo l’idea di un romanzo poliziesco ambientato nell’antico Egitto, e senza il tuo aiuto e il tuo incoraggiamento questo libro non sarebbe mai stato scritto. Voglio dire qui quanto ho apprezzato gli interessanti volumi che mi hai prestato, e desidero nuovamente ringraziarti per la pazienza con cui hai risposto alle mie domande e per il tempo che mi hai dedicato. il piacere e l’interesse che mi ha arrecato la stesura di questo libro li conosci già.
La tua affezionata e riconoscente amica, Agatha Christie.
L’apporto di Glanville al romanzo non si limita semplicemente alla consulenza in materia di egittologia. Sappiamo, grazie agli studi di John Curran, che alcune idee dell’uomo sono decisive anche a livello della trama, della soluzione e della struttura del romanzo. Una delle prime versioni, infatti, includeva, insieme alla storia della famiglia di Imothep, una storyline in epoca contemporanea alla Christie, con un gioco di punti di vista che avrebbe potuto ispirare romanzi come La figlia del tempo di Josephine Tey (pubblicato qualche anno dopo, nel 1951). Sempre grazie al lavoro di John Curran, scopriamo che sotto l’influenza e i consigli di Glanville l’autrice scrive un finale diverso che, anni dopo, avrebbe voluto modificare, come cita nella sua autobiografia.
Immaginare un romanzo del genere fa rimpiangere l’opera incompleta. Noi lettori avremmo potuto leggere un’ulteriore versione del romanzo, che purtroppo è stata scartata.
Certo, non bisogna piangere sul latte (non) versato, visto che il romanzo che è arrivato ai giorni nostri dimostra ancora una volta la versatilità della scrittura e della mente di Agatha Christie, che non si è mai tirata indietro davanti a nessuna sfida.
-Davide & Marco
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