Soltanto a pochi giorni di distanza dal compleanno di Italo Calvino ci ritroviamo a parlare dello scrittore per #EinaudiTO, il percorso di lettura dedicato alle figure che hanno fatto parte della casa editrice Einaudi e che con Torino hanno un legame particolare.
Anno chiave che lega città e scrittore è il 1947, quando, lui che è nato a Cuba e ha vissuto per qualche tempo a Sanremo, decide di trasferirsi a Torino. Sente che le strade polverose della città, ancora assediate dalle rovine del dopoguerra, sono il luogo giusto da cui partire per parlare di letteratura e per dare nuova forma alla realtà. Torino ha «certe virtù non dissimili da quelle della mia gente, e mie favorite: l’assenza di schiume romantiche, il far affidamento soprattutto sul proprio lavoro, una schiva diffidenza nativa, e in più il senso sicuro di partecipare al vasto mondo che si muove e non alla chiusa provincia, il piacere di vivere temperato di ironia, l’intelligenza chiarificatrice e razionale.»
Il 1947 però è speciale per altri due motivi. In primis è l’anno della laurea di Calvino, che fa una dissertazione su Joseph Conrad, e poi viene pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno, suo primo romanzo, a cui lavora sotto la guida dei futuri amici dell’Einaudi e che va a far compagnia ad altri due pregiatissimi titoli usciti in quel periodo, Se questo è un uomo di Primo Levi e La romana di Alberto Moravia.

In via Biancamano collabora innanzitutto come promotore. Insieme a Beppe Orefice va in giro per l’Italia a bordo di una Topolino, per vendere i libri dello Struzzo a rate e per presentare ai librai le novità della casa editrice: suo compito è anche la preparazione del Notiziario Einaudi. Soltanto tempo dopo, passando per l’attività di ufficio stampa, arriverà a scalare le gerarchie aziendali e ad avvicinarsi al tavolo ovale delle riunioni del mercoledì, in qualità di redattore.
Calvino, nella sua scrittura, è sempre in bilico tra la necessità di raccontare il mondo per quello che è e la tentazione di estraniarsi dalla realtà e di interpretarla con lo sguardo del fantastico. Nel 1952 viene dato alle stampe Il visconte dimezzato, frutto della confusione e dello smarrimento che lo scrittore prova per una società che non riconosce più come sua. Nel 1956 Einaudi gli commissiona le Fiabe italiane, un progetto ambizioso che si ripropone di raccogliere tutte le fiabe e il folklore italici in un’unica raccolta, eco di quella dei fratelli Grimm. L’anno successivo poi, la tentazione di rifugiarsi in una narrazione fantastica si fa anche più forte con la consapevolezza, con l’uscita dal Partito Comunista dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, che non è più necessaria l’esperienza politica per la vita culturale di uno scrittore. Così vengono pubblicati La speculazione edilizia e Il barone rampante. Non è un caso che il protagonista di quest’ultimo romanzo decida di salire sui rami di un albero e di trascorrere lì il resto della sua esistenza, per isolarsi dal mondo e per poterlo osservare meglio.
Questa tentazione di distanziarsi dal mondo trova espressione nella vita reale quando Calvino decide di trasferirsi a Parigi nel 1967. Lo scrittore, che pochi anni prima aveva pubblicato due romanzi che potremmo definire realisti e in cui Torino si affaccia come emblema del cambiamento industriale (La giornata di uno scrutatore, Marcovaldo; 1963), sceglie di rifugiarsi nella capitale francese per trovare una dimensione privata. L’idea è quella di restarci per cinque anni, ma quella singola cifra diventa presto un numero a due cifre. Così Calvino rimane a Parigi per tredici anni.
Per Calvino Parigi è una sorta di casa di campagna, lì si può perdere, nessuno lo conosce e nessuno lo ferma. Può assaporare l’anonimato, si sente in transito e senza relazioni. Lì, confrontandosi con gli ambienti culturali francesi strutturalisti, ha l’opportunità di affinare la sua scrittura ed è proprio in questi anni che realizza opere come Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Lì entra a far parte dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), un’officina letteraria che vede tra i suoi membri Raymond Queneau, Georges Perec e Jacques Roubaud. Parigi è spazio privato e spazio culturale nello stesso tempo.
Ogni singolo libro che Calvino scriva è completamente diverso dal precedente. Sono storie uniche con un approccio squisitamente originale e una visione labirintica del mondo esterno. Tutte, in qualche modo, riprendono la visione poetica delle Lezioni americane. Il volume – ora pubblicato da Mondadori negli Oscar Moderni e uscito in origine postumo – rappresenta l’idea che Calvino ha della letteratura e della realtà. Nel 1984, lo scrittore riprende in mano le sue carte e i libri che lo hanno formato per scrivere sei lezioni da presentare in un ciclo di incontri all’università di Harvard. Prima di lui, le Charles Eliot Norton Poetry Lectures della prestigiosa università americana, erano state affidate a grandi scrittori come T.S. Eliot, Jorge Luis Borges, Octavio Paz. Purtroppo Calvino, il primo italiano a essere chiamato a svolgere questo compito, muore prima di poter parlare a un pubblico di studenti americani e prima di poter terminare la stesura dell’ultima lezione. Così ci restano cinque illuminanti saggi – illuminanti per lettori, scrittori e traduttori ma non solo – e un titolo: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Coerenza.
Della Coerenza, di quello che Calvino avrebbe scritto e detto, non ci resta nulla. Ma rimane la testimonianza di un’idea di letteratura a cui Calvino è sempre stato fedele: «la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.» Un’idea esplicata dall’immagine di Perseo-scrittore che sfida la Medusa-realtà, senza fissarla direttamente in volto e senza ignorarla, ma cogliendone la natura attraverso lo specchio, attraverso una visione indiretta del mondo.
-Davide & Marco
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