#RadicalBookFair | Intervista a Marta Rota Núñez: la traduzione tra Italia e Cile

Marta Rota Núñez nasce a Bergamo da mamma madrilena e papà bergamasco. Cresciuta a pane, libri e plurilinguismo (con una buona dose di itañolo), presto sente che quello per la letteratura e la traduzione è un amore che vuole trasformare in professione. Studia Mediazione Interculturale e Traduzione Specializzata all’Università di Bologna e, dopo aver vagato per qualche anno tra Spagna, Regno Unito, Portogallo, Canada e Cile, approda a Torino per un master in Traduzione Editoriale e decide di rimanerci. Al momento lavora come traduttrice specializzata ed editoriale con lo spagnolo e l’inglese, collaborando con diversi editori indipendenti di narrativa per adulti e ragazzi. Tra le voci da lei tradotte, la cilena María José Ferrada e il colombiano Orlando Echeverri Benedetti.

E con queste righe si presenta Marta Rota Núñez, traduttrice editoriale che ringraziamo per aver risposto al nostro appello per #RadicalBookFair. Le abbiamo fatto qualche domanda, quindi vi lasciamo alle sue risposte.


Marta Rota Núñez, traduttrice dalla lingua spagnola e dalla lingua inglese, hai collaborato con realtà editoriali come Topipittori e Edicola Ediciones. Com’è nata questa passione e come ti sei avvicinata al mondo della traduzione?

È stato un percorso piuttosto naturale. L’amore per la lettura è nato quando ancora ero bambina e passavo le ore in biblioteca, sognando che un giorno avrei lavorato nel mondo dei libri; in parallelo c’era la passione per le lingue straniere, a casa mia si parlavano già due lingue e l’idea di impararne altre mi affascinava. Quando al liceo ho saputo che esistevano facoltà dedicate alla traduzione, non ho avuto dubbi: era quella la strada che volevo intraprendere. Mi sono iscritta all’allora Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì e ricordo ancora con emozione la prima lezione di traduzione editoriale. Scoprire che avrei potuto dare voce in un’altra lingua a quei libri che tanto amavo fu un vero e proprio colpo di fulmine.

Tra i testi che hai tradotto ricordiamo Kramp di Maria José Ferrada pubblicato per Edicola Ediciones. Era la prima volta che ti trovavi di fronte a un testo di questa autrice? Com’è nato l’incontro con Maria José Ferrada?

Non era la prima volta, perché l’incontro con María José Ferrada è stata una fortunata coincidenza degli anni dell’università. Per la mia tesi di laurea triennale avevo deciso di tradurre un libro di poesie per l’infanzia e, tra i vari suggerimenti della mia relatrice, scelsi El lenguaje de las cosas di María José, che proposi poi a Topipittori e uscì qualche anno dopo con il titolo Il segreto delle cose. Non avrei mai immaginato che quel progetto di una trentina di pagine mi avrebbe spalancato un portone, ma andò proprio così: all’uscita del libro, María José venne in Italia per la Children’s Book Fair di Bologna e mi portò una copia del suo primo romanzo per adulti, Kramp, uscito da poco in Cile. Leggendolo pensai subito che quel libro doveva arrivare in Italia e sentii che avevo trovato una persona, e un’Autrice, che mi avrebbe regalato molte belle sorprese.

Al lavoro insieme a MJ Ferrada, Santiago
María José Ferrada e Marta Rota Núñez

Sorge poi spontanea la domanda successiva, com’è nato invece il rapporto con la casa editrice Edicola e che tipo di rapporto sei riuscita a instaurare con la redazione?

Anche il bel rapporto con Edicola – e con Paolo Primavera e Alice Rifelli, che sono l’anima e il corpo della casa editrice – è nato in realtà da quel primissimo lavoro su Il segreto delle cose. Quando María José venne in Italia per presentare il libro, conobbi anche Paolo, che era il responsabile della delegazione cilena per la Children’s Book Fair. In quell’occasione anche loro ricevettero una copia di Kramp, e se ne innamorarono tanto quanto me. Anche se ero ancora alle prime armi, mi diedero fiducia assegnandomi la traduzione. Quella prima collaborazione mi ha mostrato subito quanta cura e passione mettano in ogni loro libro e mi ha fatto venire voglia di conoscere meglio il loro progetto editoriale, a cavallo tra Italia e Cile. Affiancandoli nel lavoro redazionale ho imparato tantissimo, sono due persone che stimo molto e con cui è nata anche una bella amicizia.

Sappiamo anche che, in collaborazione con la casa editrice, hai avuto modo di andare in Cile. Quanto è stato importante per la tua esperienza di traduttrice andare a fare, diciamo, ‘ricerca sul campo’ ed entrare in contatto diretto con la cultura cilena?

I mesi passati in Cile sono stati tra i più importanti del mio percorso finora. Non solo per tutto quel che ho imparato a livello linguistico e culturale, ma anche per i numerosi aspetti che non ho fatto in tempo a conoscere, per le molte domande senza risposta che mi ha lasciato. In un suo splendido discorso, Susanna Basso ha definito la traduzione “l’arte di esitare”; ed esitare è, paradossalmente, quel che riesce più difficile a un traduttore alle prime armi. L’esperienza in Cile mi ha insegnato a esitare un po’ di più: ad abbandonare le mie limpide certezze castigliane per dubitare del significato di un termine; a chiedermi che intonazione abbia quella frase, nella testa di chi l’ha scritta; come pronunci lui, o lei, quella esse, quella ci, quella zeta. E poi, non solo come la pronuncia, ma come la percepisce, quella parola? Come guarda il mondo? Quale bagaglio storico, sociale, economico, educativo, antropologico, politico, religioso si porta sulle spalle? Vivere sulla propria pelle una cultura diversa non dà tutte le risposte, ma può insegnare a farsi le giuste domande.

Quali sono le difficoltà maggiori che hai trovato nel tuo lavoro di traduttrice? Ti va di farci qualche esempio di autore/passo particolarmente ostico?

Le difficoltà più vistose che mi vengono in mente sono quelle che, in fondo, più mi hanno divertita. Ammettiamolo: a quale traduttore non piace mettersi le mani nei capelli e arrovellarsi su un gioco di parole, una rima, un termine settoriale, un’espressione figurata? Ricordo un agosto di qualche anno fa, mi avevano assegnato due libricini cartonati per pre-lettori, avranno avuto ognuno una cinquantina di parole a dir tanto. Il tipico lavoro che sembra di poter fare sotto l’ombrellone, e invece è costato giorni di fatica (e lunghe telefonate con la direttrice editoriale) per far quadrare rime, rapporto con le immagini e frasi che dovevano avere una sintassi semplicissima. Trovo però che le difficoltà davvero insidiose siano quelle che si vedono più faticosamente. Per me, che ho una fissazione maniacale per la sonorità del testo, la preoccupazione maggiore è sempre quella di ricreare in italiano il tono e l’andamento dell’opera originale. Mi è successo soprattutto con gli autori che hanno una voce molto personale, come María José Ferrada, o Orlando Echeverri Benedetti (Criacuervo). È un lavoro delicato, che comporta un’analisi approfondita dell’originale e molte riletture della traduzione, anche ad alta voce, per trovare il giusto ritmo.

Con Alice Rifelli, stand Edicola, FILSA Santiago 2018
Alice Rifelli e Marta Rota Núñez allo stand di Edicola Ediciones

Quale tipo di rapporto esiste, o dovrebbe esistere, secondo te, tra traduttore e autore? E tra traduttore e lettore?

Si dice che il nostro sia un mestiere solitario, ma in realtà siamo in dialogo costante con entrambi; probabilmente se li avessi tutti e due alla scrivania sarebbe un continuo “Qui perché hai scritto così?” all’uno e “Questa frase come ti suona?” all’altro. Anche se questo non è possibile, credo che a livello professionale dovrebbe esserci una certa collaborazione e disponibilità da parte dell’autore, nel caso di dubbi che traduttore e redazione non riuscissero a risolvere da soli. Quando si collabora, il risultato finale è nettamente migliore. Per quanto riguarda il lettore, senz’altro sarebbe bello che prendesse più consapevolezza del ruolo del traduttore, credo che porterebbe a un maggiore investimento nella qualità della traduzione.

Quali sono, secondo te, gli aspetti più difficili che un aspirante traduttore si trova ad affrontare affacciandosi sul mercato editoriale odierno? Su quali aspetti dovrebbe soffermarsi per farsi le ossa?

Credo che molte delle difficoltà con cui ci si scontra all’inizio derivino dalla poca o superficiale conoscenza del mercato editoriale. Ho perso il conto delle volte in cui, durante gli studi, e poi dopo, mi sono sentita dire che “l’editoria è un settore difficile”, che “è un mondo chiuso”, che “di traduzione editoriale non si vive”: è un costante Uno su mille ce la fa sparato nelle orecchie. Sono difficoltà oggettive? Sì, ed è giusto saperlo per fare una scelta consapevole. Ma ripeterle senza fornire (nel caso di chi fa formazione) o cercare (nel caso di chi si affaccia a questo mondo) gli strumenti per affrontarle, a mio parere ha poco senso. Per superarle almeno in parte è fondamentale investire del tempo per conoscere meglio il settore editoriale, le sue dinamiche, i suoi volti. Se in questo non sempre l’università aiuta, si può sopperire in molti modi: con la partecipazione a fiere, conferenze e incontri; leggendo riviste, blog o newsletter; informandosi tramite realtà come il sindacato STRADE; frequentando i siti degli editori, studiando i loro cataloghi, parlando con loro quando se ne ha occasione, leggendo i loro libri. Purtroppo, oggi, difficilmente una collaborazione editoriale pioverà dal cielo, quindi bisogna darsi da fare per crearsela: capire a chi proporsi, come proporsi e che cosa proporre (e che cosa non accettare mai), in maniera informata e professionale.

Tenendo presente che la traduzione è uno dei mestieri più immersivi e complessi che ci siano al mondo, secondo la tua esperienza, quali sono le qualità di un buon traduttore?

L’elenco sarebbe lungo (e probabilmente troppo ottimistico), ma provo a riassumerlo in quattro punti per me fondamentali: un buon traduttore è a tutti gli effetti scrittore, e deve avere, quindi, un’eccellente padronanza della propria lingua madre, che va sempre nutrita con cura; visto che ogni opera letteraria ha una propria musicalità, il traduttore è anche un po’ compositore, deve avere orecchio per i ritmi e le sonorità del testo; credo che il buon traduttore, poi, abbia qualcosa dell’investigatore – è meticoloso, accorto, non sopporta i dubbi irrisolti, è la tipica persona che nel bel mezzo di una conversazione si alza per prendere il cellulare (in altri tempi, o in salotti ben forniti, il dizionario o l’enciclopedia) per verificare una parola, un dato, un nome; infine, visto che il traduttore altro non è che un infaticabile viaggiatore, avrà una mente vivace, curiosa, aperta all’altro, e non sarà soddisfatto finché non avrà perlustrato ogni angolo del vasto paesaggio che ogni buon libro racchiude.

Spesso il lettore, quando compra un libro, non si cura tanto della traduzione, la dà per scontata (e questo succede anche nel mondo editoriale, talvolta). Ma la traduzione è a tutti gli effetti un’arte. Come definiresti allora quest’arte?

Quello dell’invisibilità della traduzione è un grande paradosso. Non curarsi della traduzione è come non curarsi di quale vetro stanno montando sulla finestra di camera nostra: potrebbe essere pieno di macchie, opaco, oppure tutto colorato, potrebbe distorcere la visuale, essere a specchio e riflettere l’interno, o del tutto nero e lasciarci al buio. Quando il vetro è trasparente e pulito, invece, possiamo concederci il lusso di non vederlo nemmeno, di guardare solo quel che c’è al di là. Questa è l’arte della traduzione: essere il vetro giusto per quella finestra e permettere al lettore di godersi il panorama.

Siamo quasi alla fine. Una domanda indiscreta, hai qualche progetto o proposta di traduzione in corso/fase di approvazione? Se sì, puoi farci qualche piccolissimo spoiler?

Vi anticipo qualche prossima uscita di cui sono molto contenta. Ho da poco consegnato una raccolta di racconti di Alfredo Gómez Cerdá, un bravissimo autore spagnolo per bambini e ragazzi, che uscirà per Kalandraka. E ora invece sto lavorando a un altro romanzo per Edicola, dell’autrice cilena Lola Larra; un libro appassionante con cui sto anche imparando molto, perché narra delle vicende di Colonia Dignidad, un villaggio fondato in Cile negli anni Sessanta da un gruppo di immigrati tedeschi, che aveva stretti rapporti con il nazismo e con Pinochet. Sulle proposte di traduzione invece sono più scaramantica, quindi per ora non dico nulla… Ho qualcosa nel cassetto da un po’ sia per la narrativa che per la saggistica, vedremo!

Foto Marta quadrato

Prima di lasciarci, considerando il momento difficile in cui stiamo vivendo come pensi che cambierà il mondo della traduzione finita l’emergenza? Ci spieghiamo meglio, pensi che ci troveremo in una situazione del tipo che le case editrici saranno costrette a stampare meno libri e quindi ad aumentare la qualità generale della produzione (e quindi anche traduzioni migliori)?

Questa vostra ipotesi mi piace molto, “fare meno ma farlo meglio” dovrebbe andare dritto nell’elenco dei buoni propositi di tutti noi. Ammetto che ho difficoltà a figurarmi un poi nitido in questo momento. Di certo la traduzione, e non solo quella editoriale, ma anche quella tecnica, medico-scientifica, audiovisiva, continuerà a essere uno strumento fondamentale nel mondo di domani. Ma i timori legati a questa emergenza sono molti: la traduzione vive di e per lo scambio, e se le possibilità di scambio dovessero ridursi, senz’altro ne soffrirebbe. Quanto al settore editoriale, le case editrici, soprattutto quelle che già non vivevano una situazione rosea, dovranno fare i conti con una crisi economica che potrebbe metterle in ginocchio. Puntare sulla qualità dovrebbe sempre essere la scelta vincente, ma purtroppo una delle paure è che si vedano costrette a giocare al ribasso. Molto dipenderà non solo dall’inventiva dei singoli editori, ma anche dal sostegno economico che l’intero settore del libro riuscirà a ottenere.

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