Dopo aver conseguito la laurea all’Università di Pisa, Ilide Carmignani si perfeziona in seguito alla Brown University (USA) e all’Università di Siena nell’ambito della letteratura spagnola-ispanoamericana e della traduzione letteraria. A partire dal 1984 ha svolto attività di consulenza, editing e traduzione dallo spagnolo e dall’inglese per alcune fra le maggiori case editrici italiane, come Adelphi, Meridiani Mondadori e Feltrinelli. Dal 2000 è consulente per la traduzione letteraria della Salone Internazionale del Libro di Torino, dove cura incontri e seminari con il nome l’AutoreInvisibile. Dal 2003 cura, insieme al prof. Stefano Arduini, le Giornate della Traduzione Letteraria, un convegno annuale presso l’Università di Urbino.
Con una biografia e una bibliografia di tutto rispetto, non c’è molto altro da dire. Vi lasciamo alle parole di Ilide Carmignani.
Ilide Carmignani, voce italiana tra gli altri di Luis Sepúlveda, Roberto Bolaño, Borges, Cortázar, Márquez. Ma non solo traduttrice. Negli anni sei diventata un punto centrale per la categoria. Come pensi sia cambiata la percezione, da parte del lettore e dell’editoria stessa, della figura del traduttore?
Credo che la figura del traduttore sia diventata meno invisibile. La globalizzazione ha costretto tutti a confrontarsi con altre lingue, anche solo attraverso il turismo low cost o l’immigrazione o quell’universo globish/plurilingue che è la Rete. Nel campo dei libri, a questa maggiore visibilità ha sicuramente contribuito una metamorfosi strutturale.
Man mano che l’editoria artigianale si industrializzava e si pubblicavano sempre più titoli, coi gruppi che diventavano sempre più grandi, e le redazioni sempre più piccole grazie a una terziarizzazione che esternalizzava completamente o quasi il lavoro sul testo, nasceva il bisogno di professionisti in grado di rispettare i tempi stretti delle programmazioni, in particolare per i bestseller. Quando la fiction straniera è arrivata a toccare il 69,2 % delle copie vendute, su un numero di libri pubblicati impressionante (numero che da allora non ha mai smesso di crescere), è stato finalmente evidente che i traduttori erano un anello fondamentale della filiera.
Detto questo, nel pubblico, credo che solo i lettori forti percepiscano davvero la presenza di un altro autore accanto allo scrittore e, ahimè, i lettori forti sono merce rara nella nostra Italia. La traduzione è una pratica complessa: per comprenderla è necessario conoscere una seconda lingua e avere una certa dimestichezza con i codici espressivi della letteratura e con i meccanismi che regolano passaggi e possibili equivalenze.
Per chi partecipa al Salone Internazionale del Libro di Torino non può mancare l’appuntamento con gli eventi de L’Autore invisibile, la rassegna da te curata che da 20 anni dà spazio proprio a chi rimane dietro le quinte. Come è nata l’idea di questo spazio e come è cambiato negli anni?
Io abito sulle colline fra Lucca e il mare, un posto lontano mille miglia dal mondo editoriale, e sentivo un terribile bisogno di conoscere i colleghi, di condividere le esperienze, ma non sapevo né come né dove, l’Italia era il deserto. L’idea di organizzare un convegno mi venne andando alle Jornadas en torno a la traducción literaria di Tarazona, in Spagna, e al British Centre for Literary Translation in Inghilterra. Una mia allieva torinese, Elena Rolla, mi suggerì di chiedere a Ernesto Ferrero, direttore del Salone del libro di Torino ma anche traduttore di Céline e Perec, così gli scrivemmo una lettera e con nostra enorme sorpresa Ferrero disse di sì.
Da quella prima tavola rotonda, l’AutoreInvisibile è molto cresciuto, arrivando a venti-venticinque incontri per ogni edizione. È l’appuntamento annuale dei traduttori italiani, che lì hanno finalmente modo di prendere la parola, di confrontarsi con i colleghi e con tutta la filiera. Al centro della rassegna c’è “Lo scrittore e il suo doppio”, un format che porta alcuni dei nomi più prestigiosi della letteratura internazionale a confrontarsi, in un dialogo allo specchio, con il loro traduttore italiano perché, come scriveva Italo Calvino, «tradurre è il vero modo di leggere un testo».
Fra gli scrittori che hanno partecipato ci sono Daniel Pennac, Amitav Ghosh, Annie Ernaux, Enrique Vila-Matas, Elizabeth Strout, Fernando Aramburu e il mio amato Luis Sepúlveda. Negli anni, abbiamo avuto anche molte lezioni magistrali: Douglas Hofstadter, Claudio Magris, Edoardo Sanguineti, Tullio De Mauro, Valerio Magrelli, Massimo Cacciari, Luca Serianni… Fra gli incontri dedicati agli aspetti tecnici del mestiere ci sono seminari tenuti da traduttori di lungo corso, appuntamenti traduttore/revisore, rassegne di editori e redattori di narrativa straniera, workshop su tutti gli aspetti della mediazione linguistico-culturale e della scrittura, lezioni sulla filiera del libro, le pratiche editoriali, il diritto d’autore e i contratti di edizione. La traduzione è un crocevia di saperi e competenze, un’arte meticcia, ci piace mischiare.
L’Autore Invisibile non è la sola realtà legata al mondo della traduzione che curi. Ci sono anche le Giornate della traduzione letteraria, organizzate insieme a Stefano Arduini, un appuntamento annuale. Ce ne vuoi parlare?
Le Giornate della traduzione letteraria sono nate subito dopo l’AutoreInvisibile. Il Salone del libro è una cornice magnifica per un convegno di traduttori, essendo l’appuntamento annuale del mondo editoriale italiano era bello e giusto che diventasse anche il nostro appuntamento, ma la ricchezza del contenitore, la presenza di così tante voci del mondo culturale internazionale, un po’ distrae, per lavorare sui testi ci voleva uno spazio più tranquillo e appartato.
All’epoca insegnavo a “Tradurre la letteratura”, il corso diretto da Stefano Arduini a Misano, e fu naturale sottoporgli l’idea. Disse subito di sì. Questo accadeva diciotto anni fa. Da allora ogni anno ci ritroviamo nel fine settimana più vicino al 30 settembre, festa di san Girolamo, patrono dei traduttori, ad analizzare tematiche e orizzonti di un mestiere che, come scrive Susan Sontag, è il sistema circolatorio delle letterature del mondo. Vengono colleghi di lungo corso ma anche studenti, i traduttori di domani.
Poi, otto anni fa, è nato un terzo convegno, Traduttori in Movimento, tre giorni di aggiornamento riservati a chi già lavora, nella residenza per artisti del castello di Fosdinovo, sopra Bocca di Magra.

Parlando della professione, qual è lo stato della traduzione in Italia e di chi la pratica ad oggi? I traduttori sono più o meno tutelati? Esiste una “coscienza di classe”?
Le condizioni di lavoro sono difficili. Per legge abbiamo un contratto di edizione ma è riconosciuto solo a mezzo, le royalties non vengono pagate; nel resto dell’Europa un contratto del genere sarebbe nullo, da noi è legale. E poi non ci sono forme di pensione, né aiuti di alcun tipo, niente borse di studio, sussidi, sgravi. La coscienza di classe sta crescendo ma siamo ancora lontani – anche per la natura stessa del lavoro di traduzione che è autoriale, aperto – dal riuscire a far sentire la nostra voce. La prossima volta che nasco traduttrice, voglio farlo in Francia o in Germania o in Inghilterra, o meglio ancora nei paesi nordici, ma anche la Spagna sarebbe preferibile all’Italia.
Gli strumenti a disposizione dei traduttori oggi sono decisamente di più di quelli di un tempo, lo vediamo anche quando vengono pubblicate ritraduzioni di grandi classici. Per esempio, hai ritradotto Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez per Oscar Mondadori. Come è stato lavorare su quel testo? Ti sei mai chiesta cosa ne avrebbe pensato il lettore abituato alla vecchia versione?
Tradurre Cent’anni di solitudine è stato un grande onore, un grande piacere e una grande responsabilità, è un libro ancora sotto diritti, non ne esistono mille versioni come del Don Chisciotte. Ho lavorato come si lavora al libro più importante di tutte le letterature latinoamericane, con devozione, e sostenuta da una bella edizione critica rivista dallo stesso Márquez e da una bibliografia sterminata.
La prima traduzione era estremamente esotizzante, il Cent’anni di solitudine di Cicogna andava incontro ai gusti del lettore rendendo la versione italiana molto più magica e molto meno realistica dell’originale. Del resto anche i traduttori sono figli della loro epoca e quell’epoca voleva leggere il romanzo così. Capisco l’affetto del vecchio lettore per la prima versione, è una forma di nostalgia per la propria giovinezza, ma come diceva Sanguineti: un classico è un libro continuamente ritradotto e un libro continuamente ritradotto è un classico.
Il triangolo autore/traduttore/lettore è uno dei più particolari. Com’è il tuo rapporto con gli autori che hai tradotto? Ne hai conosciuti alcuni? Ci si ferma alla relazione prettamente lavorativa oppure no? È importante conoscere personalmente, quando possibile, l’autore del testo che si andrà a tradurre?
Io sono abbastanza simbiotica, credo che più si sa del proprio scrittore meglio si riesce a tradurlo, insomma cerco di seguire i miei autori su più libri e se possibile di conoscerli personalmente, anche perché ho sempre trovato molto interessante il loro parlato. Tanti dei miei scrittori però sono morti e quindi non è stato possibile. Luis Sepúlveda, con la generosità che lo caratterizzava, ha in qualche modo controbilanciato queste assenze ed è stato, oltre che una presenza costante sulla mia scrivania, un amico.
A questo punto sorge spontanea un’altra domanda. Qual è il tuo rapporto con il lettore? Esiste?
Certo. Esiste il lettore ideale a cui ti rivolgi quando traduci, che io istintivamente tendo a considerare più colto e intelligente di quello che ritengono in media le case editrici, e il lettore in carne e ossa, un lettore forte che a volte ti manda dal nulla messaggi di ringraziamento per il tuo lavoro e così facendo ti illumina meravigliosamente la giornata.
Ci sono consigli che vorresti dare a chi si trova a muovere i primi passi nel mondo della traduzione?
Sì, leggere di tutto, in lingua originale e in italiano, e scrivere. Come diceva Octavio Paz: se la letteratura è una forma specializzata del linguaggio, la traduzione è una forma specializzata della letteratura. È vero, il traduttore è uno scrittore un po’ particolare, ma resta uno scrittore che deve dare un posto nella propria letteratura a un libro straniero. In Italia, all’università, si scrive solo la tesi e molti giovani traduttori sanno tradurre solo in “accademico”, ma la lingua della letteratura è un’altra cosa.
Qual è l’ultimo testo su cui hai lavorato? Ti ha dato del filo da torcere?
È L’Università sconosciuta, la summa della poesia di Roberto Bolaño. Mi ha dato parecchio filo da torcere. Una volta Bolaño ha detto che nutriva grande ammirazione per il poeta che era stato un tempo perché non si curava affatto di essere capito, il che – potete immaginare – non è un gran viatico per un traduttore. Anche se per fortuna, dopo quattordici libri tradotti, un’infinità di letture di approfondimento e la presenza al mio fianco di un’ottima revisora, Francesca Erba, che segue me come io seguo Bolaño, sono contenta del risultato.
Ora una domanda complessa, almeno quanto la professione, ci diresti cosa significa tradurre?
A essere sinceri non lo so esattamente, so solo che è un lavoro impossibile, anche se poi in qualche modo lo faccio, quindi non so neppure quello.
Prima di lasciarci, considerando il momento difficile in cui stiamo vivendo come pensi che cambierà il mondo della traduzione finita l’emergenza? Ci spieghiamo meglio, pensi che ci troveremo in una situazione del tipo che le case editrici saranno costrette a stampare meno libri e quindi ad aumentare la qualità generale della produzione (e quindi anche traduzioni migliori)?
Speriamo davvero che la scelta sia aumentare la qualità e non tagliare ulteriormente sulla traduzione, e in generale sul lavoro di redazione. Sarebbe un danno per gli scrittori tradotti, per la nostra cultura e anche per la nostra lingua, sempre più straziata da calchi e sciatterie.
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