Una delle collane di saggistica più interessanti che ci siano sul mercato editoriale italiano è senz’altro Agone, collana della casa editrice Bompiani diretta da Antonio Scurati (esatto, proprio il vincitore del Premio Strega di quest’anno). Uno dei volumi della collana si chiama Ignorantocrazia ed è stato scritto da Gianni Canova, che è stato approcciato e stimolato alla scrittura di questo libro dallo stesso Scurati. Gianni Canova è saggista e docente di Storia e Critica del Cinema alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, ma conduce anche la trasmissione Il cinemaniaco su Sky Cinema ed è direttore del mensile Duel.
Con uno sguardo critico, ma mai polemico, Canova tocca tutte le sfaccettature della cultura e analizza con sguardo disincantato la mancata formazione di una democrazia culturale in Italia. Un approccio che non è solamente rivolto ad esplorare le cause di questa mancanza, di questa sensazione che, nonostante tutto, la cultura sia ancora un monopolio di pochi e che anzi siano in atto tentativi di scoraggiamento alla lettura, ma è anche interessato a esplorare fenomeni commerciali che ancora oggi hanno lasciato una impronta nella cultura italiana. Perché commerciale non è un insulto e bisognerebbe smettere di utilizzare questa parola in quanto tale, commerciale significa che interessa e arriva a un più ampio pubblico, partendo dal presupposto che quantità non esclude qualità e che se una cosa vende e piace molto a tante persone non vuol dire necessariamente che sia deprecabile.
Uno degli elementi che Canova va a toccare con il suo sguardo critico è il neorealismo nel cinema. Si tratta di un argomento molto complesso, ma quello che sembra emergere è che il movimento neorealista in campo cinematografico abbia creato un feticismo del reale che non parla al pubblico ma allo stesso ambiente neorealista, fornendosi una specie di giustificazione del tipo “abbiamo parlato di temi importanti e che non ci riguardano direttamente, ora possiamo stare tranquilli”.
Giustamente, Canova, attinge molto alla sua esperienza di docente di Storia del cinema. Perciò, per parlare di questo libro, citare il cinema è un dato imprescindibile. A partire dal cinema si parla di didattica e della sua continua burocratizzazione, tant’è che diventa più importante spuntare i vari argomenti da trattare durante un programma scolastico piuttosto che creare un vero dialogo con gli studenti e magari partire da un punto prefissato e arrivare a una conclusione completamente diversa da quella che ci si sarebbe aspettati.

La radice di questa assenza di democrazia culturale, accessibile a tutti, Canova la individua nell’anticipazione dell’affermazione televisiva rispetto all’acquisizione degli strumenti adatti per valutare e comprendere appieno quello che passava e passa in televisione e nei media. Ovvero, la televisione e una sua capillare distribuzione nelle case degli italiani sono arrivate prima che gli italiani stessi avessero gli strumenti per poterla comprendere appieno. Prima ancora che la lettura si diffondesse capillarmente nella popolazione. E a tal proposito cita gli sconfortanti dati sulla lettura che da anni ormai circolano e che ci vedono molto carenti rispetto ad altri nostri concittadini europei.
Ignorantocrazia affronta la questione democrazia culturale da tre punti di vista diversi. Il primo, il capitolo introduttivo del saggio, è quello, prendendo in prestito le parole dell’autore, più militante. Il secondo prende a esempio, attingendo al fumetto, al romanzo di genere, alla serialità televisiva e al cinema, quattro prodotti che in epoche diverse hanno contribuito alla diffusione della democrazia culturale e ne rappresentano un chiaro modello. L’ultima parte è dedicata a un dialogo botta e risposta fra un cinemaniaco e un cinefobico, che osservano da un bar la trasformazione del Cinema Apollo in negozio della Apple. È interessante notare come in questo ultimo segmento il discorso che si fa, applicato al cinema, sia applicabile anche ad altri discorsi, come i social (Instagram e Facebook in primis). Come l’algoritmo di piattaforme streaming pilota i gusti del pubblico proponendo contenuti a lui congeniali e che confermano la sua visione del mondo, così l’algoritmo dei social (ma anche gli stessi creatori di contenuti) propone ai follower profili e persone che condividono contenuti che sono in linea con il proprio modo di vedere le cose. Vale a dire, in buona sostanza, privarsi del confronto con il diverso e con quello che magari sarebbe in grado di fare crescere questo ipotetico pubblico.
Si tratta di un discorso che apre a talmente tante ramificazioni che se ne potrebbero scrive cento, di libri. Quello che conta è che, ancora oggi, rimane la sensazione, che ha effettivamente le sue basi nella realtà, che la cultura o perlomeno certi aspetti della cultura siano in mano a ristrette cerchie di intellettuali, se vogliamo proprio dargli un’etichetta. Cerchie che non parlano tanto a un pubblico quanto tra loro, dove per loro si intendono persone appartenenti a una stessa cerchia. Questo lo si vede anche, seppur in un contesto molto più piccolo e meno rilevante, su Instagram, dove, alcuni creatori di contenuti, chiamiamoli così, condividono sempre lo stesso gruppo di creatori loro ‘amici’ in un processo di crescita e di condivisione fittizio dal quale sono esclusi gli altri (in contrasto alla professata voglia di costruire una comunità e una rete di lettori). Una situazione su cui riflettere, per modificare la tendenza là dove siamo in grado di operare e scuotere uno status quo dove tutti nella realtà, considerato lo stato delle professioni editoriali, sono in una situazione come minimo critica.
-Davide
Canova fu uno dei pochissimi, negli anni ’90, ad aprire, con forza e continuità, la saggistica cinematografica ai generi allora ritenuti più deterioramente mercificanti: uno dei primi critici a fare esegesi seria di «Alien», di «Batman» (anche dei loro seguiti), di «Roger Rabbit», fenomeni allora suscitanti ribrezzo nella critica “dotta”…
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