La donna della domenica: i luoghi del romanzo di Fruttero & Lucentini

Come già vi avevamo anticipato negli scorsi articoli, considerata la futura pubblicazione dei volumi di Opere di bottega dedicati a Carlo Fruttero & Franco Lucentini nella collana I Meridiani di Mondadori, sotto la curatela di Domenico Scarpa, ci siamo dedicati alla riscoperta de “La Ditta“, dando il via a una nuova challenge di lettura, che ha visto come prima tappa il romanzo più conosciuto della coppia, La donna della domenica.

La storia attraversa tutta Torino, vero e proprio palcoscenico della commedia umana. Abbiamo così deciso di portare la città anche a chi non l’ha mai vista e a chi, magari, il libro non l’ha letto. Un pellegrinaggio per le vie di Torino per osservare da vicino i luoghi raccontati da Fruttero & Lucentini, per questo ci siamo presi una giornata e l’abbiamo dedicata alle vie e ai corsi della città.

Come abbiamo fatto per Le venti giornate di Torino, romanzo coevo del giallo di F & L, abbiamo creato una mappa interattiva per aiutarvi nella navigazione.

Grazie ai potenti mezzi di Google, che Fruttero & Lucentini sicuramente avrebbero canzonato per la sua invadenza, e del nostro senso dell’orientamento, misto a un po’ di organizzazione maniacale e al supporto prezioso di Alessandra Chiappori, autrice di Torino di Carta, vi offriamo qui la mappa interattiva dei luoghi de La donna della domenica.

Cliccando sul pulsante in alto a sinistra potrete raggiungere il menù principale, con tanto di piccola introduzione ed elenco dei luoghi in ordine cronologico di apparizione nel libro (più o meno). Ogni luogo è segnalato da un segnaposto blu: cliccandoci sopra potrete vedere le foto che abbiamo scattato (che potete ingrandire con un altro click; in alcuni luoghi sono anche più di una, ve lo avevamo detto che siamo maniacali!) insieme all’indirizzo. Il tutto accompagnato dalle citazioni del libro. La mappa la si può consultare anche a schermo intero.

Ad accompagnare la mappa virtuale, nel caso in cui dovessero esserci problemi di visualizzazione, vi lasciamo anche qui il frutto del nostro scarpinare.


1) Piazza Statuto, via Garibaldi (Cap. 1.1)

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L’architetto Garrone, proprio all’inizio del romanzo, esce di casa per recarsi nel suo studio, in via Mazzini. Sul tram, attraversa via Cibrario, Piazza Statuto e via Garibaldi (che all’epoca era accessibile ai mezzi).

Prevedibilmente, l’orologio elettrico della vettura era guasto: per via Cibrario, piazza Statuto, e infine lungo tutta la via Garibaldi, le lancette non si spostarono dalle 15 e 20. In polemica con questo piccolo, ma significativo, indizio di decadenza comunale, l’architetto Garrone rifiutò di spostarsi verso l’uscita. Del resto aveva la tessera da invalido, e poteva scendere davanti. Scese davanti. Il tram, deviato a causa di lavori in corso, ripartì verso una fermata non sua, in direzione di Porta Palazzo.

2) Via Cavour (Cap 1.4)

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Anna Carla contempla dalle comodità della sua casa una mattinata noiosa, ancora non sa che nella notte è avvenuto un delitto che scuoterà la Torino borghese.

Nella lunga stanza di Anna Carla il sole del pomeriggio entrava dalla porta-finestra aperta in fondo, sullo stretto balcone e sulla piazza. Ma dietro le tende di lana, anche le finestre alte e grigie sulla via Cavour erano aperte. Era rimasta aperta anche la porta del bagno.

3) Lungopò (Cap. 1.8)

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Anna Carla passeggia lungo il fiume Po. Dopo averne colto l’aspetto poetico soltanto qualche riga prima, si trova oppressa dalle sue brutture e si sente immediatamente in pericolo.

Continuò lungo l’argine: a destra aveva le acque basse e grigie del fiume, sorvegliate da lontane figure di pescatori; a sinistra un vasto e accidentato prato con alti mucchi di rifiuti, profilati contro un orizzonte di rigide strutture e neri tralicci che infittivano, in direzione di Chivasso, lungo un’arteria di grande traffico coi lampioni già incongruamente accesi. Lo squallore era calligrafico, perfezionistico, arrivava alla pianta d’acacia solitaria e morente, alla scatoletta di sardine arrugginita tra le ortiche del sentiero. Anna Carla si congratulò con se stessa: il solo fatto di aver scelto (per caso, per puro caso!) un paesaggio simile per le sue meditazioni e i suoi progetti, era già una vittoria sugli opprimenti controlli, sui cervellotici divieti di Massimo. Un paesaggio da cineclub: ecco come gliel’avrebbe ridicolizzato lui. O peggio, da documentario ecologico. Ma allora, di grazia, dov’era lecito fare due passi, secondo lui? Lungo i “quais” della Senna? Per carità! In Riviera? Figuriamoci! Nei giardini di Kew? O poveri noi!

 

4) Via Mazzini 57 (Cap. 1.14 & 2.5)

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L’architetto Garrone, nel primo capitolo del romanzo, ci offre una visione inconsueta, quella della vittima, anche se di breve durata. Così abbiamo una diapositiva del suo studio, quello in cui verrà ucciso, sia attraverso i suoi occhi che attraverso quelli della polizia.

La branda nell’angolo restava in una penombra discreta, come pure la tenda dell’acquaio; e il lume verde da ufficio, rimasto acceso sul tavolo a cavalletti, conferiva all’ambiente un tono professionale che non guastava. Sul tavolo stesso – l’architetto ebbe un fine sorriso – il fallo rituale di pietra metteva invece una nota di spregiudicato, ma non corrivo, esotismo: stava a ricordare che se quel suo studiolo era necessariamente modesto, lui restava un uomo non soltanto di mondo, ma di cultura.

Era nel retrostante scaffale a muro, semmai, che avrebbe fatto bene a mettere un po’ d’ordine. A tutti i ripiani, i pochi libri, le ingiallite riviste di arredamento, i rotoli di vecchi progetti, si mescolavano agli oggetti più diversi e meno opportuni: un fornello a spirito con una teiera sbreccata e tazze non lavate, una coperta militare, un assortimento di polverose bottiglie vuote, grovigli di spago, asciugamani e stracci vari, boccette di lassativo; sparsi numeri di settimanali che erano stati «audaci» cinque o sei anni prima, e di altre pubblicazioni non di architettura; un ventilatore rotto, un pacco d’ovatta aperto, un paio di scarpe sformate; e perfino un pannello di legno con i ganci per le chiavi, rimasto dai tempi in cui il locale faceva parte della soppressa portineria.

(…)

Come architetto, il Garrone non esercitava più: dei progetti ritrovati tra il lurido ciarpame del suo studio, i più recenti risalivano a vent’anni prima. Nell’alloggio di via Peyron, dove abitava con la vecchia madre e una sorella non sposata, non s’erano trovate lettere o altre carte di un qualsiasi interesse. E le due donne, che lo vedevano esclusivamente per i pasti, non avevano saputo o voluto dare la minima indicazione utile: a trovarlo in casa non veniva mai nessuno, e di telefonate non ne faceva e non ne riceveva, per la buona ragione che il telefono neanche l’avevano più. Una vita da topo, insomma, anzi, da ratto: passata a fare oscuramente la spola tra l’alloggio ex decoroso di via Peyron e quella chiavica della sua stanza in via Mazzini 57.

 

5) Piazza Castello (Cap. 2.2)

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Anna Carla esce in auto con la figlia Francesca e subito dà vita a quel teatrino di cui parla tanto con Massimo Campi, interloquendo animatamente col suo autista.

– I freni, Emilio, – disse, – mi raccomando. C’è la bambina.

– Stia tranquilla, signora.

Emilio, e questa era la parte meno innocua delle sue nostalgie belliche, guidava come se davanti alla macchina scoppiasse ogni cinquanta metri una granata.

– Dove andiamo, signora?

– Vada in piazza Castello, intanto. Poi le dico.

 

6) Via Fratelli Calandra (Cap. 2.3)

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Il geometra Bauchiero racconta alla polizia del suo incontro con la misteriosa bionda che sembra essere uscita dal portone dove si trova lo studio dell’architetto Garrone. Questo proprio poco prima di ritrovare il cadavere della vittima.

– Un momento, – disse De Palma. – Vorrei che lei cercasse di farsi venire in mente tutto quello che ha potuto notare tornando verso il suo portone, anche prima di incontrare la persona di cui ci ha parlato.

– Qualche macchina, – rifletté il geometra facendo mente locale. – In quel tratto ne passano poche, per via dei lavori più su, al Conservatorio. Però non posso dire di averci fatto particolarmente caso; badavo piuttosto al cane, che ogni tanto mi scende dal marciapiede e ho sempre paura che un giorno o l’altro…

– Speriamo di no, – disse incoraggiante il funzionario. – E a parte le macchine?

– Nessun altro. Cioè: davanti al bar verso via Calandra c’erano quattro o cinque di questi ragazzi… – si fermò dubitoso, non voleva offendere nessuno, – meridionali.

(…)

– Scusa, Magliano, lasciamo parlare il signor Bauchiero, – intervenne De Palma. – Dunque lei, geometra… – continuò scorrendo il primo verbale, – stava traversando via San Massimo e guardava verso casa, quando ha visto…

– Ecco il fatto! Traversando via San Massimo non guardavo verso casa. Guardavo, – disse il pensionato quasi scusandosi, – via San Massimo. Lei capisce…

– Capisco benissimo, – l’approvò De Palma.

– Verso casa, ci stavo guardando un momento prima e sul marciapiede non c’era nessuno. Ci ho riguardato un momento dopo, e c’era quella donna che pareva uscita dal mio portone e che veniva giù dalla mia parte. Ma non è che l’abbia vista uscire con i miei occhi. Non so se mi spiego…

 

7) Corso Vinzaglio, commissariato (Cap 2.7)

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Il commissario Santamaria, affacciato alla finestra del Commissariato, osserva il procedere infinito dei lavori sul corso.

Il commissario sospirò. Giù per corso Vinzaglio e corso Duca degli Abruzzi fino allo stadio, o in su verso Porta Susa, o per via Garibaldi verso il centro, c’erano quei cavalletti rossi dappertutto. E dietro, rumori d’agonia, colpi, schegge, fumi, vapori…

La sola idea di tutta quell’attività, di quel disordine acre, di quei rammendi, gli dava un senso di stanchezza quasi muscolare. Non la finivano mai, coi loro appalti.

8) Piazza Solferino (Cap. 3.3)

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Il commissario Santamaria, scrutando casualmente sul corso, riconosce Massimo Campi, uno dei sospettati dell’omicidio, che avrebbe dovuto interrogare di lì a poco.

Mancava più di mezz’ora alle cinque quando il commissario riconobbe il signor Campi nell’uomo alto e magro, bruno, d’una trentina d’anni, che scendeva da un tassì fermatosi sul controviale. Guardandolo avanzare cauto tra i cavalletti e gli altri ostacoli che lo separavano dal portone della questura, si ricordò di un particolare che aveva trascurato poco fa, nel riepilogare i dati di cui disponeva sul personaggio.

Età: 32 anni. Celibe. Militassolto. Nato a Torino e ivi residente in piazza Solferino 28. Professione dichiarata: «consulente amministrativo». Professione reale (ricavata telefonicamente da un collega della Tributaria): «Nessuna… In realtà è l’unico figlio dei miliardi di suo padre. Non mi risulta che faccia altro».

9) Piazza Carignano, Dehor di Pepino (Cap 3.4)

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Anna Carla, dopo aver acquistato qualche vestito per la figlia, decide di concedersi un momento di ozio al bar Pepino, locale storico di Torino, e ammirare la bellezza di Palazzo Carignano.

Il vestitino stava benissimo a Francesca, e Anna Carla, a muso duro, gliene comprò anche altri due, uno di tela bianca, semplicissimo ma incantevole, l’altro più elaborato, puro millenovecentosei. Un po’ lungo. Poi mandò sua figlia a casa con la signorina, andò a sedersi da sola nel dehors della gelateria Pepino, e rimase a guardare, mangiando lo stesso gelato all’amarena di quando era piccola, la facciata di Palazzo Carignano.

 

10) Corso Vittorio, Piazza Carlo Felice & Porta Nuova (Cap. 4.2)

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Massimo Campi, oppresso da cupi pensieri, si dirige verso la casa di Lello, in Piazza Madama Cristina, e attraversa corso Vittorio, Piazza Carlo Felice, dove ci sono i giardini Sambuy, e Porta Nuova.

Infilò la lunga galleria dei portici di corso Vittorio, regolare, grigia, senza speranza: come un anno di scuola, gli pareva da bambino.

A quest’ora, poi, era probabile che neanche fosse in casa; e comunque era un delitto sprecare una simile meraviglia al telefono. Meglio lasciarle passare la sua tranquilla serata in famiglia, con lo zio Emanuele e Vittorio, al riparo da entusiasmi e sovreccitazioni, e rimandare a domattina, convocarla senza dirle niente, farla trovare di colpo faccia a faccia con lo sbirro; che, del resto, era simpaticissimo.

Quando arrivò all’altezza di Porta Nuova, cercò di convincersi che era molto stanco e che i giardini di piazza Carlo Felice erano freschi, invitanti. Fece qualche passo tra le panchine – gremite di bambini, di vecchi, di uomini senza giacca che fissavano il vuoto – poi tornò indietro, oppresso. Continuò adagio, prendendo tempo, sebbene fossero le sette passate.

Le vetrine della Standa di corso Vittorio erano il Trionfo dell’Estate, l’Allegoria delle Ferie. Entrò in un caffè a bere, senza aver sete, un tè freddo, e percorse l’ultimo tratto di strada ancora più adagio: risparmiandosi per i due piani che avrebbe dovuto salire a piedi, dopo l’angoscia del traballante ascensore, fino all’attico mansardato.

11) Palazzo del Comune, Piazza Palazzo di Città (Cap. 4.2)

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Lello lavora al Comune, è un impiegato ed è fiero di potersi mantenere da solo. Nel Comune e nei palazzi intorno a Piazza della Cittadella inizia la sua ricerca per scoprire il colpevole dell’omicidio Garrone.

Non si baciavano mai, quando lui arrivava o se ne andava. Fin dalle prime volte Lello gli aveva detto di no, che questo faceva troppo marito e moglie; e dato che loro due, per forza di cose, non lo erano, che senso aveva sottostare alla schiavitù di quelle piccole cerimonie? L’indipendenza, la libertà, era anche fatta di piccole banalità evitate, di affettuose convenzioni prudentemente respinte. E adesso, nell’anticamera di quello che per Lello era «il mio studio», il contrappeso al grigio ufficio del Comune dove passava le sue giornate («il mio lavoro»), adesso lui capiva quanto fosse stato saggio. Poteva stare tranquillo: un ragazzo così avrebbe preso bene qualsiasi cosa gli avesse detto.

CIMITERO GENERALE, lesse Lello sopra la freccia quando era ormai sicuro di essersi smarrito. Perfino lui, che pure ci lavorava da anni, conosceva solo in minima parte i corridoi e i passaggi, i bruschi gomiti e gli anomali anditi, le diramazioni, le buie e stratificate rampe di scale e scalette, gli inesplicabili dislivelli e contorcimenti dell’antico palazzo del Comune. Gli pareva di essere la punta della matita di Botta, quando, risolti tutti gli altri giochi, si metteva sdegnosamente a percorrere gl’inganni concentrici di un labirinto della «Settimana Enigmistica».

Rispose al saluto di un collega di cui non ricordava il nome e raggiunse a passo svelto una nuova biforcazione e un altro «Cimitero generale», fissato all’intonaco con delle puntine da disegno arrugginite. Botta, il Mago dei rebus, il Re dei cruciverba, che mandava regolarmente le soluzioni alla rivista e vinceva anche dei premi, ogni tanto, libri o somme insignificanti con le quali riusciva però, sostenuto dalla moglie, a rompere l’anima come se gli avessero dato il Nobel. Questa volta, pensò soddisfatto, gliel’avrebbe fatto vedere lui, che rebus era capace di risolvere!

A una svolta del corridoio andò quasi a sbattere contro due uomini che camminavano spediti, gesticolando e parlando forte. «Mia mamma non aveva mai» stava dicendo uno; «Se per ipotesi» stava dicendo l’altro, mentre Lello passava, miracolosamente, in mezzo a loro. Si trovò in una specie di frastagliata anticamera, con un pavimento in parte di legno e in parte di piastrelle rosse, e due panche tutte rigate e rose lungo i bordi, su una delle quali sedeva un vecchio intento a scartocciare una caramella alla menta.

– E’ di qui l’ufficio del geometra Triberti?

 

12) Via Peyron 24bis (Cap 5.1)

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In via Peyron, in un palazzo che un tempo doveva essere nobiliare, vivono le donne Garrone, madre e sorella della vittima. Il Commissario Santamaria le interroga per scoprire qualche dettaglio cruciale per l’indagine.

La targa d’ottone era ancora quella del padre: «Avv. M. Garrone», in fitti caratteri corsivi. La famiglia doveva essersi stabilita lì in tempi, se non di prosperità, almeno di discreta agiatezza, e poi, morto prematuramente il capofamiglia, erano rimasti nell’alloggio a fitto bloccato, consumando i risparmi non cospicui di M. Garrone per far prendere la laurea a Lamberto. Ci aveva messo, come risultava dal libretto universitario, undici anni.

(…)

Nella stretta anticamera, oppressa da un alto, massiccio attaccapanni di legno nero e da una cassapanca dello stesso legno che reggeva un cane di bronzo con in bocca un fagiano, tre persone potevano appena muoversi. Mentre gli aprivano un alto e nero battente («si accomodi di qui»), il commissario notò in un angolo il riquadro dove c’era stato il telefono a muro: nessuno s’era curato di dissimulare il lungo strappo nella tappezzeria a righe bianche e rosse, sbiadita come un pigiama da cronicario.

Di là, nella sala da pranzo-salotto, la carta era invece d’un rosso ancora cupo, con grandi gigli (o alabarde?) d’argento tra i mobili rinascimentali. Lo sistemarono su una poltroncina di raso, e loro si sedettero dirimpetto, sull’orlo dell’analogo divano che, con una seconda analoga poltroncina, «faceva gruppo» attorno al tavolino rotondo. La stanza era lunga e aveva un’unica finestra senza tende, con le veneziane quasi interamente abbassate. Sulla tavola da pranzo, spinta contro una parete, c’erano una macchina da scrivere nera, della carta carbone, una lampada da ufficio.

13) La Collina (Cap. 5.2)

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La collina torinese è il luogo dove vive l’alta borghesia sabauda, ma come altri luoghi della città inizia a sentire le avvisaglie di un lugubre degrado che sembra vestire tutta Torino di un manto altrettanto lugubre. Un quadro pittoresco lo regala Ines Tabusso, residente alla villa delle Buone Pere.

– Ma chi sono? Innamorati? Coppiette? – disse Anna Carla, con incauto scetticismo.

La signora Tabusso esplose in una risata di compatimento.

– Innamorati! Chiamali innamorati! Ma lo sa che da me ci viene tutta la puttaneria di Torino Sud! Tutto il Rotary delle troie!

Anna Carla si sarebbe tagliata la lingua: e proprio adesso, che mancavano sì e no venti passi alla macchina.

– Lo sa, cara signora, cosa mi tocca fare sul mio prato tutte le sante mattine? La vendemmia dei preservativi! Venga a trovarmi, una volta, venga a vedere!… Ma un giorno o l’altro sa che faccio? Li metto tutti insieme, faccio un bel pacco, e mi prendo la soddisfazione di mandarli a quelli della Buoncostume! Voglio vedere se non si svegliano, quei lavativi! Come se non fosse loro preciso dovere di impedire questo schifo, di venir su a farmi una bella retata per atti osceni in luogo pubblico!

14) Piazza Carlina, Piazza Carlo Emanuele (Cap 6.1)

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Anna Carla accompagna in Piazza Carlina il Commissario Santamaria. L’uomo deve visitare la Galleria Vollero, uno dei locali che la vittima spesso frequentava.

Una delle macchine che scendevano a senso unico verso piazza Carlina s’era fermata (probabilmente di colpo) pochi metri più in là, sull’altro lato della via. Una donna, al solito. Il signor Vollero la vide voltarsi un attimo, con aria innocente, verso l’indignato guidatore che aveva rischiato di tamponarla, e riconobbe la signora Dosio. Bella come sempre; ma né lei, né soprattutto suo zio, erano ancora venuti a vedere la sua esposizione. L’avrebbero fatto adesso?

 

15) Galleria Vollero, Via Maria Vittoria (Cap 6.1)

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La vetrina della Galleria Vollero, una galleria d’arte che fa anche da luogo di ritrovo per la borghesia torinese, si affaccia su via Maria Vittoria. Eccone una diapositiva.

I locali della Galleria Vollero avevano fatto parte, in origine, di un vasto appartamento al pianterreno di un palazzo eretto nell’Ottocento, secondo canoni di voluminosa e duratura tristezza. Più tardi, murate alcune porte interne e aperto un ingresso con annessa vetrinetta sulla via Maria Vittoria, era stata ottenuta l’attuale sistemazione di tre locali consecutivi, nei quali s’erano succeduti, in epoche diverse e di varia durata, un tenebroso spaccio di droghe e coloniali, un tenebroso negozio di stoffe e un tenebroso negozio di bottoni. Ma quelle tenebre, quegli alti soffitti, quei massicci muri, che imponevano in ogni stagione dell’anno l’illuminazione artificiale, non erano, in giugno, senza qualche vantaggio.

 

16) Giardini Cavour (Cap 6.5)

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Quando il geometra Bauchiero viene contattato dalla polizia per un altro interrogatorio, questa volta rivelatore, si trova ai Giardini Cavour, a passeggiare con il suo cane.

– Bauchiero lo rifacciamo venire?

– Tanto vale, – sospirò De Palma, guardando l’ora.

Aprì una porta, ordinò al brigadiere Nicosia – quello che era stato al Ristoro Maria Vittoria – di andare a prendere il geometra Bauchiero, e di cercarlo ai giardini Cavour se non lo trovava in casa. Nicosia uscì in fretta, infilandosi la giacca.

– Con garbo, eh? – raccomandò il commissario. – Non ha ammazzato nessuno.

17) Piazza San Giovanni (Cap. 7.3)

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Lello e una sua collega, la Fogliato, fanno a gara a chi andrà agli Uffici Tecnici. Luogo che il ragazzo considera fondamentale per scoprire l’assassino di Garrone.

E fulmineamente si rese conto che oggi era venerdì, il giorno in cui i documenti vistati si riportavano al palazzo degli Uffici Tecnici, e che la Fogliato aveva intenzione di accaparrarsi l’incarico; che, anzi, lo considerava già suo. Tra andare e tornare, non ci sarebbe voluta più di mezz’ora; ma per vecchia consuetudine, chiunque, ogni venerdì, portasse quei documenti in piazza San Giovanni, usciva verso le undici e non rientrava in ufficio che dopo l’intervallo di mezzogiorno. Un’ora abbondante di libertà, che poteva far comodo per sbrigare commissioni personali o anche semplicemente per andare a spasso o a guardare le vetrine. Cosa avrebbero fatto due persone educate e civili messe di fronte a un privilegio del genere? Se lo sarebbero spartito equamente, godendone a turno da buoni colleghi.

 

18) Piazza Carlo Alberto (Cap. 7.13 & 1.18)

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Lello parcheggia in Piazza Carlo Alberto con l’intenzione di andare all’Unione Culturale a sentire la conferenza del dott. Bonetto sui corsi d’acqua americani. Lì, fa una inquietante scoperta.

Mentre parcheggiava sotto il monumento a Carlo Alberto pensò che se in futuro le cose si fossero messe al peggio, Massimo avrebbe sempre potuto contare su di lui, sulla sua modesta soffitta. L’avrebbe nascosto, sfamato, protetto dalla violenza rivoluzionaria che, nella sua sete di assoluto, non poteva purtroppo stare a sottilizzare tra individuo e individuo. E chissà se Massimo, una volta presa coscienza della nuova realtà, non avrebbe messo la sua grande intelligenza, le sue doti eccezionali, al servizio di…

La 124 blu era ferma, in seconda fila, in un angolo della piazza. Lello cercò di vedere chi stava al volante, ma i raggi del sole, che scendevano obliqui dal profilo dei tetti, lo accecavano. Forse qualcuno che veniva alla conferenza, si disse; e cercandosi in tasca la tessera s’incamminò verso l’Unione Culturale.

(…)

Tornando verso la sua auto, Lello passò accanto alla 124 blu, ancora parcheggiata in un angolo di piazza Carlo Alberto. Dentro non c’era nessuno, il tizio doveva abitare da quelle parti. Oltre alla chiazza di mastice grigio sul parafango, aveva anche il paraurti contorto, sempre dalla parte destra. Mancata precedenza e impatto angolare. Lello, che da quando aveva la macchina leggeva ogni giorno la cronaca di tutti gli incidenti stradali, pensò cupamente che presto o tardi una cosa del genere sarebbe capitata anche a lui. Finora era riuscito a mantenere la sua vettura intatta, ma non poteva durare in eterno. Botta aveva avuto tre incidenti in sei mesi (guadagnandoci sopra, naturalmente, perché nemmeno a farlo apposta era stata colpa dell’altro tutte e tre le volte).

19) Piazza Madama Cristina (Cap. 7.18)

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Lello, tallonato dalla misteriosa 124 blu, vola per le scale e si rifugia nel suo appartamento, in Piazza Madama Cristina.

Lasciò l’auto in via Berthollet e s’incamminò verso il portone senza guardarsi intorno.

(…)

Salendo le rampe buie della scala, Lello ricordò che s’erano conosciuti in giugno, a quella mostra retrospettiva del Cartellone Pubblicitario Balcanico, e l’ingegner Costamagna, come tutte le personalità un po’ frustrate, ripiegate su se stesse, era capace di essersi segnata la data esatta. Forse l’anniversario cadeva proprio oggi, e a questo si doveva il pedinamento. Lello si augurò che non fosse un vero e proprio ritorno di fiamma, ma solo una piccola, patetica celebrazione. Perché altrimenti…

Entrato in casa, andò subito alla finestra che dava su piazza Madama Cristina, senza accendere la luce. La 124 non era visibile. Lello restò appoggiato al davanzale, commosso, malgrado tutto. Non poteva considerare l’ingegner Costamagna come un semplice episodio nella sua vita; il loro era stato un rapporto valido e vitale, lo scambio interpersonale, il dialogo (nel senso profondo della parola, perché Rino, certo, parlare parlava poco) era stato continuo e mutualmente proficuo. Si riscosse, e con un sorriso malinconico andò a tentoni verso lo scaffale dei dischi, accese l’opaline, cercò la “Sesta Sinfonia” di Beethoven. Quante volte l’aveva sentita con la testa sulle ginocchia dell’ingegner Costamagna!

20) Piazza dell’Arsenale (Cap. 8.2)

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Piazza dell’Arsenale è il luogo in cui Lello parcheggia il sabato mattina, prima dell’appuntamento con Massimo Campi al Balùn. Sarà una giornata decisiva, che gli consentirà di scoprire un dettaglio fondamentale sull’assassino di Garrone.

Era arrivato con buon anticipo per il Lungodora, evitando gli ingorghi di Porta Palazzo, e aveva parcheggiato la 500 all’estrema periferia del Balùn, davanti ai cancelli del vecchio Arsenale, dove si è sempre sicuri di trovare un posto. Continuando poi a piedi lungo i binari e gli scalcinati depositi della Ciriè-Lanzo, s’era felicitato con se stesso per la propria accortezza: già all’altezza del commissariato Borgo Dora non c’era più un posto libero; e tanto meno più avanti, sulla strada che portava alla piazza e al caffè dell’appuntamento. In questa strada le auto stazionavano fitte anche dal lato vietato, alcune addirittura in doppia fila, e molte avevano già la contravvenzione.

21) Balùn (Cap. 8.5)

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Il Balùn ospita il mercatino delle pulci e dell’antiquariato. In questo crocevia di persone e culture diverse i principali sospettati si incrociano e si scontrano.

Voltandosi ogni tanto per tener d’occhio la porta del caffè, Lello cercò di interessarsi a quella distesa di macerie. Da un’esposizione di acciaccate e corrose stoviglie metalliche, passò a una mostra di bicchieri e terrecotte incrinate; traversò un rugginoso campo di ingranaggi e cuscinetti a sfere, consunti utensili da fabbro e da falegname, serrature, mazzi di vecchie chiavi; si addentrò tra cataste di materiale idraulico e sanitario; inciampò in un’annata della rivista «Il Foro Italiano», scivolata da una cassa che traboccava di altre annate della stessa pubblicazione e dell’«Annuario Critico di Giurisprudenza Pratica» dal 1891 al 1913; e finì per fermarsi scoraggiato davanti a uno sventrato manichino da sarta, che dominava dal suo treppiede un emporio circolare di cenci, rottami e frammenti vaghi, digradanti verso l’orlo del cerchio in una minutaglia sempre più amorfa e indistinguibile dalla semplice spazzatura.

 

22) Piazza del Cottolengo (Cap. 8.13)

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Anna Carla, Massimo Campi, il dott. Bonetto, l’americana e Lello si danno appuntamento in Piazza del Cottolengo, con l’intenzione di pranzare insieme. Ma lì succederà qualcosa che sconvolgerà i presenti e sarà Lello il primo a subirne le conseguenze.

Ripensarci con calma, si ripeté, alzando gli occhi verso il cielo nuvoloso e le altissime facciate grigie dei due padiglioni del Cottolengo. Doveva approfittare di questa lucidità insperata, di questo improvviso distacco, per persuadersi ancora meglio che tutto era finito, chiuso, liquidato. E poi non pensarci mai più.

A fianco dei padiglioni, da questa parte della piazza, nel muro di una antica fabbrica poi adibita a deposito, un alto portale di ferro era aperto su un androne scuro. Sul muro si leggeva ancora:

BALON

RESIDUATI METALLICI E INDUSTRIALI

Ma oltre l’androne cavernoso e zeppo di mobili rotti – Lello lo ricordava per esserci stato una volta – c’era un grande spiazzo a cielo aperto, dove mobili ancora più rotti e inutilizzabili, frigoriferi fuori uso, crollanti scaffalature e imputriditi banconi da negozio, casse e cassoni di ogni genere, si accatastavano in lunghe file sotto rugginose pensiline di lamiera. Erano lì in attesa principalmente di essere demoliti, ma l’ingresso per gli eventuali compratori era libero.

 

23) Via delle Orfane, Quadrilatero (Cap10.2) 

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Il Commissario Santamaria ha quasi dipanato il bandolo dell’omicidio Garrone. Con il funzionario comunale Pellegrini attraversa il Quadrilatero e arriva all’ufficio vincoli, in via delle Orfane.

Ma l’acre piacere di Pellegrini, constatò il commissario in macchina, stava tutto nel potergli illustrare con altri esempi le sedimentate, inestirpabili assurdità e contraddizioni dei vincoli, che comportavano cabalistici rapporti tra superfici piane e orizzontali, alberi e grondaie, piastrellature e marciapiedi, canne fumarie murate e opifici demoliti da mezzo secolo. Il commissario rise, si meravigliò, si scandalizzò, si batté più volte la mano sul ginocchio, ma intanto si chiedeva quante probabilità ci fossero che il vincolo 37/A lo portasse più in là di via delle Orfane, e quante di trovare i titolari dello studio Tresso e Campana di domenica.

Pellegrini si fece consegnare un mazzo di chiavi da un portinaio che lo chiamò ossequiosamente professore (di che? di scuola media, probabilmente, non certo del politecnico), e al terzo piano si fermò davanti a una porticina scura, simile a quella dell’appartamento del Riviera. La casa, la scala, erano dello stesso tipo, all’incirca della stessa età, incrostate da generazioni di cattivi odori ma non ancora del tutto affondate nel sottoproletariato.

– Eccoci qui, – sospirò Pellegrini, facendo scattare un vecchio interruttore marrone e accendendo una lampadina gialla, fioca.


 

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Questi sono solo alcuni dei luoghi chiave che abbiamo deciso di riunire sotto forma di itinerario. Ce ne sarebbero molti altri, insieme a persone, angoli, viali e controviali, ville, ristoranti. Questa piccola antologia è dedicata ai lettori de La donna della domenica, a chi ha intenzione di leggerlo, a chi vive a Torino, a chi non ci vive e a chi, magari, è curioso e vorrebbe leggere delle vicende di Santamaria, di Anna Carla Dosio e del povero architetto Garrone.

-Davide & Marco

Ogni foto, tranne dove espresso, è stata scattata dai sottoscritti. Le citazioni provengono tutte da La donna della domenica di Fruttero & Lucentini. Cosa aspettate a leggerlo?

 

5 pensieri su “La donna della domenica: i luoghi del romanzo di Fruttero & Lucentini

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