Le venti giornate di Torino

Disclaimer: Io non sono di Torino, sono nato e cresciuto a Roma. Mi sono trasferito nella città sabauda all’incirca l’anno scorso. Prima di allora conoscevo la città solo e soltanto per la FIAT, la Juve, il Toro, il Salone del libro e per i gianduiotti. Ma in realtà, senza saperlo, durante la mia infanzia, ho sempre avuto sotto gli occhi la città che mi avrebbe stregato in futuro.

All’incirca lo scorso agosto:

«Davide, guarda qua.»

«Cosa?»

«A quanto pare a settembre uscirà un libro per Frassinelli che sembra proprio interessante»

«Dici?»

Ed è incominciata proprio così, la mia avventura con “Le venti giornate di Torino“. Mi era bastato giusto un post su Facebook da parte della casa editrice per farmi catturare e farmi scoprire una strana coincidenza tra me e questo libro, quasi una predestinazione (ma di questo parleremo dopo). In più, alla nuova edizione, sembrava averci lavorato Giovanni Arduino, famoso per le sue traduzioni di Stephen King e per tanti altri progetti in altrettanti vari campi. Ricordo di averlo ascoltato con vero piacere proprio al Salone del Libro, quindi non ci pensai due volte, “Le venti giornate” sarebbe stato mio.

La trama del romanzo si può riassumere in poche righe, ma questo non darebbe abbastanza valore al significato e alla potenza dello scritto di De Maria, personaggio eccentrico della Torino del secolo scorso, una vera e propria contraddizione con le gambe. Ma bando agli excursus:

Un investigatore di cui non conosciamo il nome decide, durante il suo tempo libero, di indagare sul misterioso fenomeno accaduto dieci anni prima, la grande “psicosi” collettiva che aveva investito gli abitanti di Torino per ben venti giornate, o meglio, notti. Durante la sua discesa, o risalita, alla ricerca della verità, il povero impiegato si scontrerà con mura di silenzi, di cose dette a mezza bocca, sguardi di pietra e istinti atavici che lo porteranno a risvegliare cose che non vanno mai rivangate.

Una trama da perfetto thriller, se non fosse che parlare di thriller in questo caso sarebbe un po’ riduttivo. De Maria ci porta veramente a passeggio tra i corsi e le piazze di Torino, descrivendoci, senza esagerare nel dettaglio, tutta la mappa geometrica ed estraniante della città. Io, come vi ho detto, non sono di Torino ma ci vivo da quasi un anno. Non brillo per senso di orientamento, eppure grazie alle scene descritte come fotogrammi e inquadrature, si riesce esattamente a capire il luogo e il momento in cui il tutto avviene. Lo stile di scrittura è semplice, senza fronzoli, verrebbe quasi da dire che questa inchiesta sia stata scritta veramente col “buon senso sabaudo” (cit.). Senza barocchismi e senza estremizzazioni, la lettura procede senza problemi, sempre più veloce, proprio perché le vicende narrate sembrano esser proferite dal profondo e a ogni rigo sembra di avvicinarsi sempre più alla sorgente, per poi…per poi rimanere estraniati. Proprio così. Ed è questo il genio di De Maria, incompreso ai suoi tempi (forse in primis proprio da se stesso, viste le forti contraddizioni in cui si ritrovò a vivere).

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Ci troviamo nella Torino degli ultimi anni ’70. Torino, come in realtà tutta l’Italia, soffriva ormai da anni i colpi e le frustate del terrorismo di entrambi i colori, delle malefatte della politica, poco incline ad ascoltare cosa stesse veramente accadendo nel paese e nel resto del mondo. Per non parlare poi della fine della grande industria, con la FIAT che ormai arrancava e che stava per lasciare un enorme vuoto in quella fucina che era Torino, fucina di braccia e di menti.

Quindi, conoscendo il punto di partenza, ci sembra di capire perché,  a partire da quel luglio di dieci anni prima, la gente avesse iniziato a perdere il senno, la ragione, ad aggirarsi per la città che ormai sembrava essere inondata da un forte olezzo, quasi come fosse odore di aceto. Si era persa un’identità, non ci si riconosceva più in nulla. Ma perché gli atti efferati? Perché, anche i testimoni, preferivano non parlare, lasciar intendere che nulla fosse veramente accaduto?

Leggendo il libro sembrerà di riuscire subito a capire chi in realtà stia compiendo i vari delitti, d’altronde però De Maria non sembra farsene un problema, tanto che nella prima edizione del ’77, edizioni Il Formichiere, prima dell’inizio del racconto decide di ammonirci:

Non compiacerti troppo della tua perspicacia, o lettore, se già dalle prime pagine avrai intuito chi perpetra i massacri: forse avresti potuto sventarli in tempo, prima che l’Uccisore divenisse tanto inaccessibile.

Con una premessa del genere come non si può stare sull’attenti quando, durante la narrazione, tutto sembra andare maledettamente troppo bene? Questo è il miglior stratagemma che si possa usare per mantenere viva l’attenzione, d’altronde è proprio vero che nel romanzo, come a volte nella vita, niente è come sembra.

Tornando a noi, o a me per esser sinceri, un anno non basta per sentirsi a casa, specialmente se casa è una città definita da molti la capitale esoterica e magica d’Italia, vertice di triangoli mistici, porta dell’inferno e del paradiso, enorme ossimoro tra cortesia e ipocrisia, tra buon senso e solitudine di gruppo. Però già dai primi giorni in cui girovagavo per cercare di raccapezzarmi ero investito da deja-vù quasi in ogni angolo del centro. Piazza CLN, piazza Carlo Felice, via Santa Teresa, i vari corsi, piazza Castello, via Cernaia e addirittura la collina torinese, sembravano quasi confondersi con i miei ricordi d’infanzia. Tutto mi sembrava così familiare, mi sembrava di essere a Roma. Poi, molte sere dopo il mio trasloco in una viuzza vicino alla Mole, decisi di riguardare la trilogia degli animali di Dario Argento, per poi completare il tutto con una nuova visione di Profondo Rosso. Da lì, i brividi.

Guardando quei film, che mi aveva fatto vedere mia madre durante l’infanzia (un’infanzia interessante, tra Dario Argento e Mario Bava, tra X-Files e Twin Peaks, passando per Alien, George Romero e tanti altri capolavori più o meno trash degli anni che furono), ritrovai quei luoghi che per me erano familiari, ma che in realtà non appartenevano alla mia città (sì, una scoperta fatta molto tardi, me ne rendo conto). Avevo vissuto in una candida bugia (più probabilmente nella più beata ignoranza) nella quale poi ho ritrovato il mio posto.

Tornando al libro, sono proprio queste le atmosfere che si respirano e che coinvolgono: la Torino del libro è una Torino non tanto da Profondo Rosso, ma più da Il gatto a nove code. Ci troviamo in un romanzo cupo, dall’apparenza di un semplice thriller, di una ghost story moderna, che però nasconde molto di più, proprio come se la Torino di quegli anni fosse solo una copia carbone in negativo che si sovrappone perfettamente all’immaginario collettivo di tutti noi e che però, inevitabilmente, stona, estrania, lascia sgomenti dalla possibilità, per tutti noi, di non accorgersi che le cose accadono proprio sotto i nostri occhi.

Non parlerei di distopia, anche se abbiamo tracce di un qualcosa di Orwelliano, forse ci troviamo davanti a qualcosa di peggiore: l’innalzamento dell’uomo qualunque a personaggio di interesse, per gli altri ma soprattutto per se stesso. Vittima e carnefice, mangiatore di fama, che pur di trovare saziati i suoi istinti decide di mettere a nudo se stesso (ovviamente nascondendosi dietro vestiti dell’imperatore accuratamente confezionati) dandosi in pasto al pubblico della Biblioteca, istituto gestito dai Millenaristi dalla faccia pulita, nel quale ognuno può depositare un manoscritto autobiografico e consultare quello degli altri. Vi suona familiare?

Se questo ancora non ha suscitato in voi nessuna voglia di leggerlo, vi consiglio caldamente di recuperare lo scritto che Giovanni Arduino ha curato per “spiegare”, o meglio, far capire ai lettori, cosa siano veramente “Le venti giornate di Torino“. Sotto forma di lettera, quasi una confessione, Arduino ci accompagna nel viaggio che ha affrontato durante il lavoro sul romanzo, tornato a Torino dopo quaranta lunghi anni con un viaggio a dir poco incredibile e che collega, in maniera alquanto spaventosa, persone diverse in varie parti del mondo. Come lo stesso Arduino. E il sottoscritto.

Il suo spirito di ricerca invoglia a saperne sempre di più, a cercare anche a costo di rimanere sorpresi.

Devo ammettere di essere un po’ ignorante, non lo nego, perché quando venni a sapere dell’uscita del libro di De Maria per Frassinelli sapevo molto poco (quasi niente) dell’opera, dello scrittore e della casa editrice che stava per riproporlo. Del primo, su internet, c’è pochissima traccia, se non qualche foto della copertina originale. Del secondo lo stesso, se non una piccola biografia che in maniera risicata descrive un personaggio che di sicuro avrebbe meritato più spazio, o almeno più riconoscimento. Della casa editrice si trova veramente molto, anche la storia del suo fondatore, Carlo Frassinelli.

Nato ad Alessandria d’Egitto, decise poi di trasferirsi a Torino per frequentare i corsi della Regia Scuola Tipografica. Dopo varie vicissitudini riuscì finalmente ad aprire la sua tipografia, che si sarebbe poi tramutata nella casa editrice che porta il suo nome. Nei primi anni della casa editrice, che si trovava dove aveva il suo laboratorio di tipografia, si impegnò a tradurre autori sconosciuti come Melville, Joyce, Bàbel e O’Neill. La tipografia era frequentata da un certo Giulio Einaudi, che proprio da quelle frequentazioni decise di aprire la sua casa editrice.

Ma perché vi sto raccontando tutto questo, perché vi tedio con parole di cui a voi non interessa nulla? Perché qui che le varie storie di cui vi ho parlato si incontrano, sta a voi decidere quale ruolo giochi la predestinazione e quale la suggestione e la coincidenza.

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Sullo sfondo le “stalle” dove si trovava il laboratorio tipografico di Carlo Frassinelli.

Continuando le mie ricerche su questo editore, ho scoperto con grande sorpresa di abitare nel palazzo in cui Carlo Frassinelli aveva il suo laboratorio. Una grande coincidenza che mi rende alquanto felice, scommetto che nessuno nel condominio sa di questo fatto (e non voglio farlo scoprire, potrebbero aumentarmi l’affitto). Una coincidenza felice e che un po’ lascia un senso di straniamento. È possibile che il libro abbia deciso di buttarmi nel mezzo delle sue vicende? Devo dire che fatti strani nel palazzo ne succedono, e molto spesso. A volte, mentre dormo, mi sembra quasi di sentire bussare al portone di legno. Ma non un bussare umano, quasi come lo sbattere di una mazza chiodata, di quelle usate in tempo medievale. Forse è per questo che a volte ho problemi a dormire. Di sicuro mi son solo fatto condizionare. Spero.

-Marco

 

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11 pensieri su “Le venti giornate di Torino

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